Nuovo giallo di Gianni Biondillo: hanno assassinato la Storia dell'Architettura
Quando abitiamo le nostre città siamo piuttosto spontaneamente consapevoli del fatto che sono complesse e contraddittorie: al tempo stesso belle e brutte, buone e cattive, sicure e pericolose eccetera eccetera. Capiamo anche altrettanto confusamente come quella complessità e contraddizioni siano sempre irriducibili a quello che ci spiegano le varie memorie di qualcuno in qualche modo e misura interessato da dare un senso compiuto e lineare. Perché la sua è una tesi soggettiva, buona dentro un laboratorio ma meno buona quando dal laboratorio si esce per strada per andare a casa a fare altri esperimenti. Insomma nessuno di noi accetta per buona la spiegazione tecnica dell'ingegnere sull'utilità di un cordolo quando quel cordolo ci ha aperto in due i pantaloni scivolandoci sopra. E neppure la critica d'arte estasiata per quell'edificio che ci incombe addosso orrendo durante le pause pranzo. In fondo è la contraddizione fra storia e memorie, che anche lei va benissimo fin quando non si confondono i termini: la storia è un processo in divenire, la memoria un fatto più o meno compiuto, una specie di pietrificazione difficile da modificare. Succede con tutto, con l'esperienza quotidiana che chiamiamo città così come con le architetture che contribuiscono a comporla. Confondere è sbagliato, specie quando si mischia la memoria degli architetti con la Storia dell'Architettura. Purtroppo è quel che è stato fatto a lungo, e ancora si fa, fin dentro le scuole di livello universitario, quelle che l'Architettura dovrebbero insegnarla come disciplina, tecnica di progetto e altro.
Proprio quello che chiamo «altro» pare un pochino sospeso nella focalizzazione sul formare progettisti pronti a un mercato del lavoro dove la cultura pare avere un ruolo piuttosto marginale, salvo se si tratta di valorizzazione culturale: ovvero di arricchimento del prodotto con qualità aggiunte per non dire posticce. E dove per Storia dell'Architettura si finisce a volte per intendere Memoria dei Prestigiosi Maestri, memoria acquisita peraltro ad assetto variabile a seconda chi soggettivamente finisce per comunicarla. In altre parole la storia dell'architettura che si insegna ai futuri professionisti è in realtà una specie di manuale di citazioni scelte per cercarsi riferimenti alti e colti, come quelle raccolte che non mancavano mai nei cataloghi degli Editori e adesso dilagano sul web avido di «Cit.». E tra le vittime di questo piuttosto goffo strabismo formativo finiscono per figurare anche coloro che poi in realtà fanno tutt'altro che il progettista di edifici o ristrutturatore di cascinali di collina, come l'ottimo scrittore e giallista Gianni Biondillo, il quale nonostante il consolidato successo letterario continua ad essere cultore e appassionato dei suoi studi universitari al Politecnico di Milano. Là maestri e letture parallele gli hanno impartito evidentemente la classica memoria piuttosto corporativa degli «architetti modernisti padri della patria democratica e progressista». Una tesi come un'altra, certo, che però sia quando viene impartita da una cattedra sia quando come nel caso di Gianni Biondillo diventa addirittura saggio-fiction, rivolta a un vasto pubblico, dovrebbe essere dotata di adeguati ammortizzatori.
Che invece in Quello Che Noi Non Siamo (Guanda 2023) manca, e manca nonostante la precisazione che di opera narrativa e non saggistica si tratta, nonostante l'altra precisazione che tutto quanto viene riferito, a volte parola per parola nei dialoghi dei protagonisti, non è invenzione ma ricomposizione di fonti. Insomma il lettore appassionato dalle vicende del mondo dell'arte della critica e dell'architettura italiana, nel periodo tra le due guerre mondiali e la Resistenza, attraversa centinaia di pagine in cui le discussioni sui progetti, la pubblicistica, i convegni e il ruolo sociale e politico dell'architetto paiono davvero filtrati dalla Storia o almeno da una sua considerevole fetta, che è quella dell'Italia contemporanea, repubblicana e costituzionale. Le cui radici sarebbero da cercare anche in quelle discussioni al bar o in studio fra studenti, professionisti affermati o esordienti, accademici, familiari attenti e cooperativi. Qualcuno di quegli architetti era convinto fascista, qualcun altro tiepido o indifferente, altri da subito antifascisti e poi militanti partigiani, ma tutti portatori di una fiammella comune, che dal modernismo delle avanguardie da cui discendono ricostruisce un modello di arte, professione, società e politica nuovo. Che, ripeto, è una legittima tesi non a caso sviluppata e pure tramandata in accademia, ma non coincide affatto con la Storia dell'Architettura e men che meno con quella dell'Italia comunque intesa. È una memoria di gruppo, che una scrittura un po' più esplicita, anche solo attraverso la citazione delle fonti documentali, avrebbe dovuto dichiarare.