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Domenica, 28 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Il riflesso condizionato del centro commerciale

L'idea originaria risale al medesimo riconosciuto inventore dello shopping mall scatolone moderno, Victor Gruen, che ebbro del fulminante successo della propria trovata tecnico-commerciale pensava subito di trasferirla dall'ambiente del laboratorio suburbano di villette, dove era nata, al nucleo denso in crisi di identità delle città centrali da cui erano fuggiti gli abitanti di quelle villette. La tesi diciamo così scientifica non era neppure tanto fantasiosa: se gli investimenti terziario-commerciali sono in grado di produrre dal nulla in mezzo a un prato una specie di vitale città utopica fatta di folle felici che passeggiano dal parcheggio ai negozi, perché non dovrebbero riuscirci ancora meglio là dove in realtà quei parcheggi e negozi già ci sono ma hanno bisogno solo di una vigorosa rinfrescatina architettonica e urbanistica? Ne nacque un lungo puntuale articolo pubblicato nel 1954 dalla prestigiosa Harvard Business Review e a strettissimo giro un faraonico piano pubblico-privato per la rivitalizzazione del centro di Fort Worth in Texas, con echi internazionali arrivati sino in Italia (con la mediazione del co-progettista Edgardo Contini) sulla rivista dell'Istituto Nazionale di Urbanistica che gli dedicava un numero quasi monografico. La storia poi ci racconta come sia andato a finire tutto quanto: il centro commerciale suburbano diffuso come un virus nel territorio della dispersione a fungere da punta di diamante della villettopoli globale; la riqualificazione urbana al massimo convertita in gentrification speculativa senza nessun particolare elemento di innovazione ambientale o organizzativa.

Ma veniamo ai nostri giorni in cui i movimenti ambientalisti e sociali paiono prendersela in contemporanea sia col consumo di suolo dello sprawl metropolitano di scatoloni, sia col tipo di trasformazioni urbane e densificazioni che quel consumo di suolo dicono di contrastarlo. Oggetto degli attacchi ideologici all'arma bianca adesso è quel Piazzale Loreto di Milano un tempo scenario dei Caroselli con Ernesto Calindri intento a combattere il «logorio della vita moderna», ingollando aperitivo a base di carciofo seduto a un tavolino in mezzo al traffico delle Seicento e Giuliette. Considerato, sulla base di esperimenti pluridecennali, che le riflessioni filosofiche e una moderata assunzione di alcol non bastano né ad arginare gli impatti ambientali delle auto, né a migliorare l'efficienza della città e il benessere degli abitanti, per Piazzale Loreto si è di nuovo manifestata una spinta alla trasformazione nel medesimo segno pubblico-privato di quella di Fort Worth pensata da Victor Gruen, anche se su dimensioni minori e meno sbilanciata sul solo aspetto commerciale. L'idea, schematicamente riassunta, è di convertire lo hub automobilistico e in generale trasportistico (ai flussi di automobili si mescolano quelli delle due linee di metropolitana incrociate nel sottosuolo) in una vera e propria piazza, usando le risorse economiche degli oneri garantiti dalle nuove costruzioni e riqualificazioni di una parte consistente degli affacci. Apriti cielo.

«Un progetto che trasformerà uno spazio pubblico in un centro commerciale, per sua natura privato. Inaccettabile: privatizzare una piazza, in un momento in cui le politiche urbane neoliberali sono globalmente sottoposte a un fuoco critico crescente, è un atto politico imperdonabile e reazionario, non ci sono più scuse». Così inizia un articolo di una nota polemista locale critica del cosiddetto Modello Milano, e dove nello stile diventato piuttosto noto tra i vari movimenti di opposizione alle politiche urbane di riqualificazione, e spesso sostituzione sociale di importanti porzioni della città, appunto si usa la locuzione acchiappaclick «centro commerciale» per appenderci poi sopra giudizi, opinioni, fatti e dati vari, a costruire un quadro interpretativo. Il normale lettore elettronico dei nostri distratti tempi mediatici è già trascinato dentro il flusso dei pensieri e pre-giudizi di chi scrive oltre che nel proprio immaginario pregresso sull'argomento, specifico e più generale, di «centro commerciale». Che è individuato come male a prescindere soprattutto perché evoca quel modello già considerato obsoleto dal suo progettista, e che infatti tanti danni ha fatto, ma che in realtà nasconde più che svelare i caratteri di quella trasposizione urbana. Composta a ben vedere da tanti distinti spezzoni: l'investimento immobiliare privato (discutibilissimo di per sé nel merito, molto meno in termini di principio e come parte di «politiche urbane neoliberali» qualsivoglia); la trasformazione pubblica del nodo metropolitano di traffico e mobilità nel quadro di una più ampia de-automobilizzazione degli accessi al nucleo centrale; infine la commercializzazione vera e propria dell'ex svincolo di traffico dove tracannava i suoi aperitivi Ernesto Calindri, e ora potranno passeggiare mamme e bambini senza schivare le utilitarie.

C'è anche un altro aspetto del progetto, stavolta immateriale, da considerare a parte, ed è quello della sua comunicazione, consenso, partecipazione, ben riassunta dall'acronimo LOC per Loreto Open Community, ma dove il solito uso di termini anglofoni ovviamente traveste promozione immobiliare propaganda elettorale o tutto quello che qualunque normale osservatore delle cose urbane almeno intuisce ancora prima di guardare meglio. Ma tutte queste componenti, non necessariamente confuse e sovrapposte, vengono mescolate dalla critica ideologica dentro quel flusso di coscienza aperto dall'uso del lemma «centro commerciale» e dagli automatismi che programmaticamente evoca. E che poi conducono infallibilmente alla conclusione: è tutto sbagliato è tutto da rifare, naturalmente seguendo un «nuovo paradigma» i cui contorni ci sono ignoti, ma certamente ce li rivelerà il guru di turno seguendolo fedelmente in tutte le comparsate sui media.

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