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Venerdì, 26 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

A cosa serve lo standard a verde?

Anni fa un notissimo studioso, piuttosto noto per allargare le proprie indiscutibili competenze scientifiche a campi anche lontanissimi da quello in cui era oggettivamente qualificato, si ritrovò di fronte la contestazione organizzata contro un suo progettato centro di ricerche, da realizzarsi invece di un parco sulla superficie per nulla irrilevante di parecchie decine di ettari. E dall'alto di una sua ennesima improvvisata competenza scientifica rispose attraverso varie interviste ai giornali che «quello non è certo un parco, al massimo una distesa di sterpaglie». Molto probabilmente il termine parco all'anziano scienziato evocava giusto quei luoghi che nella sua esperienza personale erano così qualificati ed etichettati: gruppi di alberi di specie molto gradevoli e ornamentali, viali serpeggianti tra aiuole fiorite e radure a prati, qualche monumento o isolato edificio a guidare l'occhio a una veduta prospettica, panchine, fontane. Mentre nei terreni messi a disposizione dai proprietari per il suo centro ricerche non c'era nulla del genere, salvo forse qualche breve filare di alberi lungo i fossi di irrigazione dei campi coltivati a frumento o granturco: ovvio che gridare alla cementificazione del parco come facevano gli oppositori fosse almeno dal suo punto di vista un «falso scientifico» da liquidare con una scrollata. Però, anche scontando l'ovvia forzatura e la malafede dell'interesse particolare, resta il nucleo di indiscutibile verità, secondo cui non si può chiamare propriamente parco, spazio dedicato alle funzioni proprie del parco, del verde pubblico, tutto ciò che una classificazione urbanistico-territoriale-ambientale chiama così. Ci vogliono altre qualificazioni.

E per comprenderle meglio le discipline socio-sanitarie (un discorso a parte per quelle ambientali-climatiche per esempio) provano a interrogarsi molto sistematicamente su cosa significhi pensare uno «standard natura» al giorno d'oggi, nell'epoca della cosiddetta urbanizzazione planetaria, ovvero artificializzazione generalizzata, che potrebbe interessare sia i parchi formali immaginati dall'anziano ricercatore, sia quelli che lui impropriamente liquidava come distese di sterpaglie. Un'esistenza per amore o per forza sempre più caratteristicamente urbana, fa sì che si viva sempre più lontano dall'esperienza naturale. Si passa sempre più tempo dentro un edificio, o un veicolo in movimento, e sempre meno all'aperto (a volte molto meno di un'ora su 24), mentre diminuiscono di importanza attività un tempo del tutto normali come agricoltura, caccia, pesca, che per lavoro o tempo libero coprivano quote di esistenza ben maggiori a contatto diretto con ambienti naturali. E risulta sempre più fondamentale capire esattamente i benefici e gli altri effetti diretti e indiretti, di questo contatto, su fisico, spirito, comportamenti individuali e collettivi, per fissare regole consapevoli urbane, sanitarie, addirittura sociali e politiche. Nonostante la grande mole di ricerche prodotte recentemente, il mondo scientifico è ben consapevole che ancora esiste una enorme quantità di questioni aperte e problemi irrisolti: quanto come e in che misura di esposizione il verde serve agli esseri umani, magari anche solo contemplato da una finestra dentro un vaso, o immergendocisi dentro insieme a bestie feroci se indispensabile? Ah: saperlo!

Ma per iniziare a chiarirsi un pochino le idee bisogna partire davvero da lontano: cosa si intende per contatto con la natura? E con quale genere, di natura? Pensiamo ad aree di piante, animali, anche in parte trasformate o gestite da mani umane, ovvero a qualcosa che può andare da un giardinetto sotto casa a una foresta vergine, ma anche aspetti come un tramonto o un lontano panorama, insomma cose molto varie percepite e sperimentate in una varietà di modi. Pensiamo anche che, filosoficamente parlando, l'uomo fa parte dell'ambiente, della natura: in che senso la consideriamo a parte, in che senso può «mancarci la natura»? E tra le modalità di contatto, a seconda delle proporzioni e dimensioni della specifica parte di natura, ce ne possono essere di molto prossime, di meno, di profonde e superficiali se non immateriali. Ma tutto, con effetti specifici tutti da conoscere e comparare rispetto alla salute, al benessere, alle relazioni sociali e collettive. Insomma per poter fissare così a capocchia veri e propri «standard di verde» anche solo quantitativi-qualitativi (e di distanza fisica rispetto all'utente ad esempio) ci mancano tante di quelle informazioni da rendere potenzialmente ridicole tutte le leggi e norme che in materia sono state elaborate da un secolo e mezzo a questa parte, in materia urbanistica, sanitaria, sociale, sportiva eccetera eccetera. Certo, si tratta di procedere con cautela e consapevolezza, ma iniziare a legare quegli standard in modo automatico ad ogni nuova acquisizione scientifica dovrebbe essere doveroso. Per non finire a combinare guai immensi come quelli rilevati sugli effetti devastanti di «immergersi nel verde del suburbio», così di moda da decenni.

Per approfondire:​ Howard Frumkin, Sprawl e salute collettiva

Vedi anche Howard Frumkin et. al. Nature contact and human health – A research agenda, Environmental Health Perspectives, luglio 2017

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A cosa serve lo standard a verde?

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