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Venerdì, 26 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Starbucks trasformazioni urbane e paranoie

Molti anni fa, a un qualificato convegno sulla trasformazione in corso nei consumi italiani, mi capitò di ascoltare uno studioso di scienze sociali commentare così l'esordio dei primi fast food all'americana in Italia: «Non prenderanno mai piede, perché è troppo radicata l'abitudine di tornare a casa per consumare pasti composti con altri cibi». Poco tempo prima nella Capitale, contro l'inaugurazione di uno di questi esercizi in centro storico, manifestavano guidati da un ex assessore in cerca di nuova visibilità, gruppi di «pizzettari contro i paninari», puntualmente accusati di «uccidere la città». In entrambi i casi, concettualmente del tutto analoghi, vorrei soffermarmi soprattutto sul dettaglio da cui si trae la conclusione generale, non importa se a suo modo ottimista e conservatrice (anche se sbagliata) come con il sociologo, o catastrofica come coi cultori militanti della focaccina street food. Il dettaglio è naturalmente la polpetta di carne trita, dentro cui si nasconderebbe tutto il male della colonizzazione, dell'invasione aliena più o meno riuscita, del dominio del capitale globalizzato sulla società locale e così via. Col senno di poi, sappiamo benissimo dopo un paio di generazioni di consumi e trasformazioni urbane, che non solo il consumare i pasti cucinati dalla mamma non ha affatto interferito col successo dei chioschi di polpette e accessori, ma anche che la città se è davvero morta non lo dà a vedere, pare invece in discreta salute, e pronta a respingere nuovi attacchi dal Deserto dei Tartari esterno.

Mi riferisco ovviamente all'ultimo assalto alla tazza bianca cantato dagli onori della cronaca, attacco a sorsate di terribile caffè (almeno secondo le critiche a volte pregiudiziali dei difensori della patria), portato col marchio Starbucks, per adesso con la flagship roastery o simbolica torrefazione, in Piazza Cordusio a Milano. Che ha suscitato discussioni del tutto legittime, tra favorevoli e contrari, che paiono però spesso focalizzarsi esattamente su polpette e pizzette di un tempo, stavolta in versione liquida o poco più, traendone conclusioni altrettanto sballate su cosa minaccia la morte della città, della società, il crollo definitivo della galassia e chi più ne ha più ne metta. Una multinazionale della ristorazione apre un punto vendita in una grande città, e per farlo cambia destinazione d'uso a un edificio, modifica superficialmente lo spazio di una piazza, e mira a modificare stili e comportamenti come già ha fatto con successo in altre città di tutto il mondo. E certamente qui (come con le polpette e le pizzette) possiamo parlare all'infinito di organizzazione del lavoro, sfruttamento, finanza, appiattimento di consumi e immaginario, globale contro locale. Ma lo facciamo a partire da cosa? Dalla tostatura del caffè? Dallo stile pacchiano dei tavolini e chioschetti vagamente tropicali che hanno occupato il marciapiede, evocando indirettamente il boschetto di banane sponsorizzato da qualche anno proprio da Starbucks davanti al Duomo, a duecento metri di distanza?

Per capire a che distanza siderale si riesca a balzare dalle vere questioni in campo, con questo metodo che per carità di patria chiamerò «eccessivamente induttivo», vorrei citare qui alla lettera un commento letto su un profilo assai intellettualmente qualificato insieme da altri commenti di altri profili noti e altrettanto qualificati. Diceva perentorio quel commento, che la caffetteria è chiaro segno della «gentrificazione dei nostri centri storici, cioè la loro trasformazione a fondali di prestigio per eventi commerciali beoti e per mandrie di turisti». E in effetti devo dire che con tutte le storpiature della gentrification, incluse quelle di genere, etnia, ciclistiche o cromatiche, già abbondantemente passate, questa che la confonde con la disneyzzazione mi suona abbastanza nuova. E notare il tono quasi da testo scientifico con note adottato per spiegare al volgo la terribile strategia dell'invasione Starbucks. Che in fondo credo trovi in questi improbabili critici, elitari solo per autoproclamazione, i migliori promotori e piazzisti, proprio perché ci invitano caldamente a guardare il dito anziché la Luna. Se si fosse piazzata la sede di un vero mostro della finanza speculativa, in quel palazzo, forse avremmo letto giusto un trafiletto di un analista economico su una rivista di sinistra, a proposito di multinazionali, invasione, diritti del lavoro stritolati e così via. Mentre col paragone al caffè tostato e preparato in modo diverso da quello del barista Antonio di fiducia, quei temi vengono lasciati esattamente al punto di prima, nascondendo al contempo la piccola vera questione: la città ci perde o ci guadagna, in qualità dello spazio, del lavoro, della vitalità generale? E l'unica vera critica che sorge, in fondo, sono quei terrificanti e ingombranti (lo spazio pubblico della piazza adesso lo è molto meno, con quegli ingombranti cosi) chioschi simil-tropicali. Una bella campagna con l'amministrazione cittadina perché si impegni a liberare lo spazio, e magari nel contempo a riqualificare l'insieme, sarebbe giusta, mirata, con risultati garantiti. Come quella fatta in sordina sulla qualitò del lavoro e dei contratti. E delle incombenti multinazionali della polpetta, del caffè e della pizzetta, nonché della morte vera o presunta della città, ce ne occupiamo un'altra volta, dopo il caffè e la sosta in un bagno pulito.

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