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Sabato, 27 Aprile 2024

Fabio Salamida

Giornalista

Chi non è di destra si merita di meglio

Le elezioni politiche del 25 settembre e le regionali di Lazio e Lombardia, che hanno visto una netta affermazione delle destre, rappresentano qualcosa di più di una passeggera crisi di consenso del variegato e frammentato campo del centrosinistra: la crisi è profonda ed è una crisi di senso. Non serve avere particolari doti di veggenza per capire che gran parte dei sei elettori su dieci che hanno disertato questa ultima tornata elettorale in due grandi regioni, hanno giudicato inadeguata l’offerta politica dei partiti che attualmente dovrebbero rappresentare l’opposizione al Governo guidato dal signor presidente Giorgia. Al netto di una disaffezione generalizzata verso la politica che cresce sempre più, quei potenziali votanti non reputano nessuno all’altezza di rappresentarli e hanno smesso da tempo di “turarsi il naso”. La sinistra in Italia è minoranza: lo è sempre stata salvo brevi stagioni in cui è riuscita a sfruttare momenti favorevoli dando vita ad alleanze fondate più su somme algebriche che su programmi condivisi; ma in questo momento è una minoranza che non ha neanche uno straccio di partito di riferimento.

Il Pd non è mai stato un vero e proprio partito

E non lo ha perché quel Partito Democratico che avrebbe dovuto rappresentarla in quota parte non lo ha mai fatto davvero, prima in nome del vuoto teorema della vocazione maggioritaria di veltroniana memoria (che si è concretizzata in un “Facciamo entrare tutti e rappresentiamo tutti, anche Mario Adinolfi”), poi in nome uno stanco tirare a campare fondato sul “tanto i nostri ci voteranno sempre”. Un presupposto decisamente miope e non poco arrogante: a forza di dare per scontati gli elettori, elezione dopo elezione gli elettori hanno smesso di votarli. Al Nazareno di rosso c’è rimasto solo il pianeta su cui vivono i dirigenti, a cominciare dal quasi ex segretario, Enrico Letta, che in queste ore si gongola per aver tenuto a debita distanza Movimento 5 Stelle e Terzo Polo. Forse all’ex docente dell’Institut d’Etudes politiques de Paris sfugge che in politica non esiste la "zona Champions” e quando si perde la Regione Lazio con venti punti di distacco dopo averla governata per dieci anni non è il caso di gioire per un secondo posto. La verità è che il Pd non è mai stato un vero e proprio partito. Al netto delle iniziative dei singoli, è una somma di gruppi tenuti insieme da un collante fatto di conte interne, di poltrone, di nomine, di ascese e discese di ufficiali senza esercito; un contenitore vuoto che vorrebbe rappresentare tutto e il contrario di tutto, ma finisce per non rappresentare nessuno; un cartello elettorale dove gli unici voti che contano e si contano sono le preferenze dei candidati: davvero poco per invogliare qualcuno a votarlo. Così, mentre sul pianeta Terra le destre marciano indisturbate su tutta l’Italia, nel Pd si celebra l’ennesimo congresso per eleggere l’ennesimo segretario che prometterà l’ennesima ripartenza “dalle periferie e dai luoghi del disagio sociale”, che tempo qualche anno darà le ennesime dimissioni (per ennesimo senso di responsabilità…), ma prima di andarsene diventerà l’ennesimo “traghettatore” che aprirà i lavori dell’ennesima assemblea aperta a iscritti e simpatizzanti in un enorme centro polifunzionale. A quel punto, finalmente, qualcuno capirà cos’è un centro polifunzionale. In questi mesi, a onor del vero, diversi esponenti del Pd, tra cui la saggia Rosy Bindi, hanno suggerito di mettere fine a questa insensata agonia politica proponendo di sciogliere il partito e favorire la nascita di qualcosa di nuovo, ma sono stati trattati come nemici del popolo: di quale popolo non è dato sapere.

I 5 Stelle come Rifondazione

Se Atene piange, Sparta non ride. Sembra passato un secolo da quella sera del 4 marzo del 2018, quando Alfonso Bonafede, Luigi Di Maio e Gianluigi Paragone, si abbracciavano per festeggiare i risultati delle elezioni, con il loro Movimento 5 Stelle al 33%. Il primo è tornato a fare l’avvocato, il secondo, mesi dopo l’umiliante 0,5% alle politiche, si è rifatto vivo scrivendo un articolo per Il Foglio, il terzo vorrebbe l’Italia fuori dall’Europa ma al momento riesce a convincere solo il 2% degli italiani. Dietro di loro, ingrandendo il fermo immagine fino a farlo sgranare, si poteva scorgere Giuseppe Conte, ex premier e attuale leader del partito fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Nel giro di pochi anni, quelli che “non siamo un partito, siamo la gente”, che avrebbero dovuto "aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, sono rimasti imprigionati dentro la scatoletta, come in una sorta cella di massima sicurezza piena di olio di semi di girasole. Il partito dell’anti- establishment è diventato una costola dell’establishment, con ex deputati e senatori a sgomitare per un contratto di collaborazione negli uffici dei gruppi parlamentari. I voti scarseggiano: quelli che erano stati presi in prestito dalla destra definendo le navi delle Ong “taxi del mare” sono tornati a casa loro e oggi il principale obiettivo del Movimento a guida Conte è diventato quello di superare nei consensi il Partito Democratico - con cui si allea a giorni alterni - ed accreditarsi come principale forza di opposizione: non proprio cambiare il mondo, insomma. Oggi il Movimento 5 Stelle è una specie di Rifondazione Comunista con qualche punto percentuale in più, un partito che muove uno zoccolo duro di consensi puntando sull’assistenzialismo e sul “no tutto” caro alla sinistra sinistra; ma del partito che fu guidato da Fausto Bertinotti non ha né l’ideologia, né quei costosi maglioni di morbido cashmere.

Il Terzo polo

E poi c’è il cosiddetto terzo polo, che visti i consensi di terzo ha solo il nome. Se li accosti alla sinistra si offendono, perché si definiscono “riformisti e liberali” (deve essere qualcosa di simile al centro polifunzionale…), ma escludendo le new entry dell’ultima ora in uscita da Forza Italia, altro non sono che i renziani in fuga dal Pd a guida Letta (che non li avrebbe mai ricandidati per vendicarsi di quello “stai sereno”) più Carlo Calenda, che al contrario di quanto avrebbe fatto il segretario Pd li ha salvati dall’oblio sommando i suoi voti ai loro, dopo aver rotto un’alleanza già siglata con lo stesso Letta adducendo scuse degne di un libretto di giustificazioni delle scuole medie, di quelli che si usavano saltare l’ora di ginnastica. Alle politiche hanno raggiunto il 7,7%, alle regionali del Lazio si sono fermati al 4,9% e in Lombardia, dove con una mossa “geniale” avevano candidato l’ex Assessore al Welfare della giunta Fontana, Letizia Moratti, hanno raccolto appena il 4,2% dei consensi. Risultati che suggerirebbero una presa d’atto del fallimento del progetto, una stretta di mano e “ci si sente per gli auguri di Natale”. Macché: come in un film dei fratelli Vanzina, commentando a caldo i deludenti risultati, Calenda ha rilanciato: “il partito unico non può più aspettare”. Chi stia aspettando con tanta ansia il partito unico, anche in questo caso, non è dato sapere. Quello che sappiamo è che se l’offerta politica resterà questa, il signor presidente Giorgia governerà agevolmente per i prossimi vent’anni.

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