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Domenica, 28 Aprile 2024

Vendesi ideali (su Instagram). Processo alle intenzioni degli influencer, anzi attivisti, anzi imprenditori

Una volta, anni fa, in una vecchia intervista, Chiara Ferragni disse che sceglieva i brand con cui avviare una collaborazione solo ed esclusivamente se questi corrispondevano al suo gusto personale in fatto di moda. E che era proprio questa la chiave del suo successo: la coerenza. Qualche anno dopo, cioè oggi, la scelta degli abiti si è sublimata, o trasfigurata, (anche) in scelta di ideali da promuovere, chiaramente al centro del piano editoriale dei suoi profili social. Cosa c'è in comune tra abiti ed ideali, oltre alla "autentica" corrispondenza dell'immagine? In alcuni casi, la retribuzione. Motivo per cui, nel titolo, parliamo di "attivismo di professione". Cosa c'è di male? Forse nulla. Cosa c'è di contraddittorio? Forse qualcosa. Motivo per cui condividiamo un paio di spunti di riflessione, se non altro per indagare la diffidenza da cui è facile essere colti. 

Perché sì, questo è, dichiaratamente, un processo alle intenzioni. Alle intenzioni di certi influencer, un po' imprenditori e un po' attivisti.

Dicevamo: a nessuno sarà sfuggito il post dell'imprenditrice digitale in Messico mentre, scavando a mani nude tra le piantagioni di caffè, elogia appunto una nota multinazionale di caffè per il lavoro di empowerment femminile (questione che le è molto cara) tra le imprenditrici della zona: fotografie scattate mentre indossa vestiti verde bottiglia perfettamente in palette con il contesto e corredate da hashtag #adv. Personalmente, era la prima volta che vedevo - o forse era la prima in cui ci facevo caso - l'acronimo "adv" (ovvero: pubblicità) in un post dal contesto solidale. E ammetto che, in un primo momento, l'intreccio così sfacciato tra i due concetti, l'uno di "vile denaro" e l'altro di "nobili intenti", se vogliamo ricorrere a semplificazioni, mi ha indispettito. Poi però, guardando oltre, ovvero all'orizzonte alle spalle di Chiara, ho visto sorgere una sinergia tra i due concetti sempre più presente. E, proprio in virtù di cotanta presenza, ho cercato strumenti di ricognizione per trovare un orientamento nel mondo potente quanto benefico e persuasivo (dunque manipolatorio) degli influencer. E dell'influencer marketing, in generale. 

Professione influencer, anzi imprenditore, anzi attivista 

Sì perché, per la verità, ho poi ricollegato che Chiara in versione "presidente operaio", come ha scherzato magistralmente la giornalista Guia Soncini su Twitter, non è certo sola. Anzi, è in ottima compagnia. Basta guardarle al fianco per vedere materializzarsi, infatti, l'immagine del marito Fedez, che ha lanciato una linea di smalti unisex in collaborazione con un noto brand di cosmesi proprio mentre si faceva paladino dei diritti LGBTQ+ (i ricavati sono stati in parte devoluti, ndr). E ancora, attorno a loro, si moltiplica un esercito di personaggi che vivono in maniera spesso combinata i ricavi e il sostegno a battaglie sociali. Battaglie di cui hanno fatto una missione personale e aziendale (che, letta in chiave più blasonata, è generosamente rivedibile nel seguente adagio: "quelli che mettono il loro pubblico a disposizione di una buona causa"). C'è chi, ad esempio, ha fondato un brand di creme di bellezza sostenendo contestualmente, e legittimamente, i concetti di body positivity, ovvero lusingando il pubblico ad accettare un rotolino di troppo; c'è chi, al grido femminista di "riprendiamoci le mestruazioni", sponsorizza assorbenti. Eccetera, eccetera. 

E' un esercito che, nei casi più specifici, ovvero quelli in cui l'intero profilo è impostato su una causa specifica, la stampa americana già chiama "influ-activist", neologismo dietro cui si annidano quelle figure di influencer in campo per le battaglie sociali, appunto. E quello che ha fatto Ferragni, è stato forse rendere "generalista" qualcosa che per alcuni profili è nicchia: il suo, infatti, non è un profilo interamente dedito ad una determinata mission, ma è costantemente permeato da messaggi solidali e aspirazionali, femministi e non solo. Una vera e propria nobilitazione d'immagine se si pensa in contrapposizione a quello che è stato l'unico reale passo falso dell'imprenditrice nella sua carriera: la famosa festa di compleanno al supermercato organizzata per Fedez nel 2018, quando gli invitati si lanciarono con le verdure generando in rete un'ondata di indignazione opposta alla benevolenza di cui oggi gode l'imprenditrice digitale. 

C'è qualcosa di male?

Ma torniamo a noi. Ora, la domanda è: c'è qualcosa di male nel fatto che qualcuno si faccia pagare in concomitanza alla diffusione di ideali? Al di là della critica più banale che si possa muovere, ovvero quella legittima della linea di confine tra interessi economici e buone intenzioni (che però viene messa a tacere da chi risponderebbe di "cercare partnership che si allineino ai propri valori") e provando a schivare quel sottinteso per cui l'attivismo dovrebbe essere dettato da una esigenza innata e non certo dal tornaconto economico, qualche perplessità c'è.

Se l'attivismo è alleato del nemico che vuole "combattere"

Senza infatti scadere nella retorica nostalgica de "l'attivismo vero è quello di una volta, l'attivismo si fa in piazza e non certo con un click", ma tenendoci ben convinti del valore insito nell'equazione "piazza reale" =  "piazza virtuale", diventa comunque uno spunto di riflessione lo svuotamento assoluto di connotazione sovversiva che ha l'attivismo social. Quell'attivismo "di una volta" (che, da Wikipedia, leggiamo avere come sinonimi: boicottaggio, disobbedienza civile, contestazione, riformismo, rivolta, rivoluzione, sabotaggio, sommossa e terrorismo) si è allineato al "sistema" che afferma di combattere, o meglio al "sistema" che è in teoria il suo storico antagonista e da cui ora, invece, viene pure retribuito. 

E no, non c'è niente di male in questa nuova corrispondenza d'amorosi sensi tra moralismo ed economia di mercato, ovvero in questa eccezione che è diventata la regola. Va però preso atto che, se Ferragni che sfoggia i capezzoli su Instagram al grido di "Free the nipple" è il corrispettivo delle femministe che entravano a seno nudo nei bar, questo fa senz'altro comodo anche al noto brand di intimo di cui è testimonial. Brand che, all'improvviso, si trova dalla parte social(e) giusta. 

Se l'attivismo è autopromozione di sé (e non solo della collettività)

Altra forte contraddizione dell'attivismo social rispetto all'attivismo tradizionale, se così vogliamo chiamarlo, è infatti il concetto di autopromozione insito nella natura stessa dell'influencer, che, proprio per lavoro, narra se stessa. E che deve farlo nel modo migliore e più convincente possibile. Un autoposizionamente che va, almeno in astratto, a scontrarsi con la natura collettiva di una causa, di qualsiasi causa. Una riflessione interessante, questa, e portata avanti dall'autrice Irene Graziosi, che in Siamo Mine scriveva tempo fa: "Ogni lotta è declinata sul sé, ognuno la intende a proprio modo, e nessuno è in grado di non personalizzare l’ideale a cui sostiene di credere". 

L’attivismo, in questo senso, diventa sempre più un lifestyle da comprare (da comprare, appunto), allontanandosi dalla natura di pratica politica, come ha detto Silvia Semenzin, ricercatrice in Sociologia Digitale, nella conferenza TEDxFerrara. Qualcosa che - ancora - The Guardian, in modo impietoso, definisce: "Questo progressismo consapevole di sé, eseguito in collaborazione con una società". E qualcosa che, quando circoscritto nei margini di pura immagine e puro ritorno economico, assume la definizione di "attivismo performativo".

La degenerazione di questo concetto? Quell'influencer che finse una aggressione omofoba dandosi una busta di surgelati in faccia, in modo da procurarsi un livido, per attirare l'attenzione su di sé ed ergersi a leader dei diritti Lgbt. Indimenticabile, insuperabile... forse, per ora ecco. 

Se i brand e gli l'influencer predicano bene e razzolano male. Cos'è il woke washing 

La degenerazione di questo concetto è poi, anche, il duplice rischio di "woke washing" (l'ipocrisia di certi brand nello sfruttare grandi temi di discussione pubblica per ottenerne profitto, ndr), soprattutto in questi anni in cui le aziende tendono ad assecondare le preteste etiche sempre più alte della generazione z e dei millennials. Ed in cui gli influencer rappresentano il deus ex machina del loro potere d'acquisto. L'azienda rispetta davvero i propositi sociali di cui si fregia? Lo fa su tutti i livelli? E l'influencer sa davvero di cosa sta parlando? Indimenticabile quella beauty influencer che si fregiava di diffondere pubblicamente la body positivity per poi sfottere via social una collega che indossava, a suo dire peggio, il suo stesso vestito. 

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E noi, tra di loro

Che poi, in fondo, ci sarebbe anche da chiedersi se le nostre stesse pretese etiche siano reali o di facciata. Sì perché noi stessi, da quando Instagram ha cambiato volto - ovvero da quando si è politicizzato, anno domini 2020, a seguito del Black Lives Matter - siamo noi stessi costantemente in balìa di un "woke washing" personale e quotidiano. Moralisti e censori, sempre impegnati a fornire la versione più politicamente ben posizionata che possa esistere, in ossequio alla battaglia sociale che l'algoritmo ci fornisce sul menù del giorno. Sempre nella posizione politica giusta insomma, e sempre dal divano di casa, ma sempre pronti ad aggiungere un nuovo prodotto al carrello su Amazon. 

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