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Domenica, 28 Aprile 2024

L'editoriale

Francesco Marino

Il Capodanno a Parigi e la distesa di smartphone: il futuro sarà perennemente online?

“Parecchie decine, parecchie centinaia di azioni simultanee, di microeventi ognuno dei quali implica delle posture, degli atti motori, dei precisi dispendi di energia. Discussioni a due, discussioni a tre, discussioni a più persone: il movimento delle labbra, i gesti, le mimiche espressive”. Nell’ottobre del 1974, lo scrittore francese Georges Perec osserva per tre giorni tutto quello che succede a place Saint-Sulpice, a Parigi. Prende nota di ogni cosa: nasce un breve libro che si chiama ‘Tentativo di esaurimento di un luogo parigino”.

L’esperienza di Perec ha ispirato alcuni esercizi di un movimento di attivisti dell’attenzione, nato negli Stati Uniti. Alcuni di questi hanno fondato la Strother School of Radical Attention, un vero proprio centro di educazione all’attenzione, che definiscono radicale. “L’attenzione radicale è alla base di un mondo condiviso. Le piattaforme digitali – si legge sul sito ufficiale della scuola -, le tecnologie di eye-tracking e le strutture di mercato dell’economia dell’attenzione cercano di catturare ogni secondo del nostro sguardo. In questo modo, trasformano i nostri occhi in simboli del dollaro e realizzano enormi profitti a nostre spese”.

Il mondo attraverso lo smartphone

Ho pensato di recente al concetto di attenzione radicale, all’importanza di riconquistare la capacità di essere presenti, nel tempo e nello spazio, guardando un video che ha girato molto su Internet in questi giorni. Capodanno a Parigi, conto alla rovescia, le persone che fanno quello che forse avremmo fatto un po’ tutti: tirano fuori lo smartphone, per riprendere, per ricordare.

L'immagine, per quei pochi secondi, è in effetti piuttosto impressionante. Qualcuno, nei commenti a un video che ho pubblicato sull’argomento su Instagram, mi ha detto che l’altezza dei fuochi d’artificio e la folla rendevano necessario lo smartphone per riuscire a vedere qualcosa. E questo, in parte, spiegherebbe l’onnipresenza degli schermi.

Al netto delle circostanze, tuttavia, quella di assistere a un evento di qualunque genere e di vedere ovunque dispositivi digitali a riprendere è un’esperienza che abbiamo vissuto un po’ tutti. Ai concerti, in un museo, davanti a un monumento famoso: la possibilità di scattare fotografie, riprendere video, condiziona molto la relazione che come esseri umani abbiamo con lo spazio che ci circonda, con quello che possiamo definire mondo fisico (il virtuale è reale, ricordiamolo).

Che sembra essere sempre più sfondo, appendice di relazioni e processi che avvengono online. Del resto, è su Internet che lavoriamo, che manteniamo buona parte delle nostre relazioni sociali, che ci informiamo, che ci intratteniamo. Trascorriamo in media oltre 6 ore al giorno online, ma il tempo speso davanti agli schermi è solo una delle variabili in gioco. A contare è quanto il digitale rappresenti la porta di accesso principale al mondo per un numero sempre più alto di persone.

Questa tendenza ha un corollario. Se lo spazio digitale è il luogo privilegiato in cui si svolgono parti consistenti delle nostre vite, è al web che pensiamo, anche quando stiamo vivendo qualcosa che avrebbe solo bisogno della nostra presenza nello spazio fisico. Del resto, quel video, quella foto, quella storia Instagram, ci serviranno per coltivare una relazione, per tratteggiare la nostra identità in relazione agli altri, per mandare un messaggio a qualcuno a cui teniamo.

Il mondo diventa opportunità di contenuto, oggetto di un’interazione che avviene da un’altra parte, in un altro momento.

Il futuro: perennemente online?

Alla luce di questa, che è già un’abitudine piuttosto radicata, è difficile non immaginare un futuro - o una parte di futuro - in cui smart glass o dispositivi più piccoli potenziati da AI ci permettano di vivere costantemente online, senza frizioni, senza nemmeno lo sforzo di tirare fuori lo smartphone.

È quello che molti chiamano ambient computing. Dispositivi (spesso indossabili) che, grazie all’intelligenza artificiale, diventano in grado di vedere e interpretare lo spazio fisico in tempo reale, di rispondere a domande e di elaborare immagini. L'obiettivo finale è eliminare la sensazione di mediazione: scompare lo schermo, la tecnologia diventa un’estensione naturale dell’utente, integrata all’interno dell’ambiente circostante.

All’ambient computing stanno lavorando in tanti, da OpenAI alla neonata Humane, che ha lanciato di recente l’AI Pin. Il mese scorso, Mark Zuckerberg ha annunciato ufficialmente l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei nuovi Ray-Ban Meta Smart Glasses. L’AI permette agli occhiali di guardare l’ambiente circostante e di rispondere alle domande degli utenti.

In una recensione per il New York Times, il giornalista Cade Metz li ha indossati per due settimane. Ha notato una cosa che, più di ogni altra, mi ha colpito. Ha raccontato di aver provato una sensazione costante, nel periodo della prova: quando indossava gli occhiali non riusciva mai a concentrarsi fino in fondo. Era distratto, costantemente alla ricerca di una foto, di un video, di un’opportunità per scattare. "Se hai la macchina fotografica con te, non sei immediatamente nel momento, non stai vivendo quell’attimo – ha spiegato nell’articolo il fotografo Ben Long -. Ti stai chiedendo: c’è qualcosa che posso registrare e raccontare?".

Che è un po’, anche senza indossare occhiali intelligenti, quello che si sono chieste le persone presenti agli Champs-Élysées, negli ultimi secondi del 2023, mentre attendevano il 2024 e i fuochi d’artificio sull’Arco di Trionfo.

Il Capodanno a Parigi e la distesa di smartphone: il futuro sarà perennemente online?

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