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Sabato, 27 Aprile 2024

L'editoriale

Francesco Marino

La storia di Giovanna Pedretti e come i social network hanno alterato il dibattito pubblico

“Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”.

Per quanto provi a liberarmene, questa frase di Carlo Emilio Gadda mi torna sempre alla mente, quando succede qualcosa di solo apparentemente semplice, la cui lettura appare scontata, quasi automatica. Come nella storia di Giovanna Pedretti, la ristoratrice di Lodi trovata morta domenica scorsa dopo essere stata al centro di una storia di cronaca, a partire dalla sua risposta a una recensione omofoba e abilista lasciata su Google al ristorante di cui era titolare. Recensione di cui, la scorsa settimana, qualcuno aveva iniziato a sospettare l’autenticità, alimentando l’attenzione attorno alla storia.

“Un’inopinata catastrofe”, citando ancora quel libro fondamentale per capire (o non capire) la realtà che è Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Una tragedia in cui sembra facile individuare colpevoli. Ma che merita, probabilmente, una riflessione più profonda.

L’economia della reazione

In un bell’articolo sulla London Review of Books, William Davies traccia i confini di quella che definisce l’economia della reazione. Un contesto in cui, scrive, “informazioni ed emozioni rimbalzano tra nodi di una vasta e complessa rete, mutando mentre viaggiano. In questo modello, ogni reazione individuale è un’ulteriore informazione gettata nella rete, alla ricerca di contro- reazioni”.

Cosa facciamo quando siamo nei social network, in fondo? Reagiamo, rispondiamo, interagiamo. Fruiamo sì in maniera passiva di contenuti, ma siamo costantemente spinti all’interazione. È scritto nel design stesso delle piattaforme: alla pubblicazione di un contenuto deve corrispondere una risposta, una faccina, un feedback di qualche genere. E non solo, è la progettazione stessa dei social network a incentivare la reazione. Se un post ha molte interazioni, è più probabile che l’algoritmo decida di distribuirlo.

È il core business delle piattaforme, del resto: se reagiamo, mostriamo un interesse, trascorriamo tempo sull’app e permettiamo ai suoi proprietari di vendere i nostri occhi (eyeballs, dicono gli americani) agli inserzionisti pubblicitari. Consentiamo all’algoritmo di conoscerci meglio e, quindi, di suggerirci il prossimo contenuto nel modo più accurato possibile.

Nel libro "Divertirsi da morire", Neil Postman racconta di Henry David Thoreau, filosofo dell'Ottocento, che in "Walden ovvero vita nei boschi" parla delle possibilità offerte dal telegrafo, che avrebbe fatto della nazione “un grande vicinato”. Ma “se Maine e Texas non avessero nulla di dirsi?”, si domanda Postman. In quel caso, risponde, il telegrafo avrebbe “creato la sua specifica definizione di discorso; non avrebbe soltanto permesso bensì anche preteso che ci fosse conversazione tra il Maine e il Texas; e avrebbe imposto che quella conversazione fosse diversa da ciò cui l’uomo tipografico era abituato”.

E, per l’uomo dei social network, ogni singolo oggetto di senso è una conversazione: soprattutto se può favorire una reazione. Ogni evento, anche insignificante, è potenzialmente virale, notizia da migliaia di click e commenti. Perché questo design delle piattaforme non è neutrale: altera le nostre percezioni, cambia le priorità, ridisegna i confini stessi di quello che consideriamo importante.

Ancora Davies: “La nostra sfera pubblica è spesso dominata da eventi che potremmo chiamare ‘catene di reazione’, in cui le reazioni provocano altre reazioni, che a loro volta ne provocano altre, e così via. In questi contesti, il dibattito esplode e si sposta sui meriti delle posizioni assunte, e il sospetto scende su quelli che non reagiscono”.

È la pretesa che una conversazione - o una reazione - ci sia, come scrive Postman.

Chi è responsabile?

Lo gnommero, il gomitolo di Gaddiana memoria, è intricato, per definizione. Non c’è un responsabile o, meglio, lo siamo tutti. Perché tutti abitiamo un sistema economico e sociale fondato e basato sulla reazione, sull’indignazione, sulla valuta sociale spesa a danno di chi in quel momento riteniamo sia da stigmatizzare.

Un sistema, disegnato da una manciata di piattaforme dell’Ovest degli Stati Uniti, che condiziona e orienta in modo sempre più impossibile da ignorare il dibattito pubblico di mezzo mondo.

Perché influenza le scelte dei giornali, che fiutano una notizia da centinaia di commenti e corrono a pubblicarla, senza - colpevolmente - accertarne la veridicità. Spinge, in reazione a quel dibattito, altri giornalisti o comunque soggetti con un certo potere sociale a indagare, a cercare di comprendere se quella storia è vera e a pubblicare sui social network quanto hanno scoperto. Favorisce, poi, la reazione scomposta di chi, in balia di informazioni contrastanti, decide di sfogare la propria frustrazione contro chiunque sia al centro della notizia, sempre alla ricerca di validazione sociale.

E travolge chi è vittima della catena di reazioni del giorno, a volte con conseguenze molto gravi.

Siamo tutti responsabili: giornalisti, professionisti della comunicazione o semplici nodi del network

Siamo tutti responsabili, come giornalisti, professionisti della comunicazione o semplici nodi del network. Perché ciascuno di noi ha alimentato, almeno una volta, questo sistema. E non se ne esce, come scrive su Facebook lo scrittore e saggista Raffaele Alberto Ventura, trovando un altro colpevole, ingegnerizzando la prossima contro-gogna. E nemmeno resistendo in modo passivo questo sistema, provando la via dell’ascetismo digitale. Serve una riflessione collettiva, condivisa, sul dibattito pubblico che vogliamo, sugli effetti che le piattaforme hanno avuto e avranno su quello che ci sembra importante, sui nostri desideri, sulla qualità delle nostre relazioni con l’altro.

Condivido l’appello di Davide Piacenza, che chiude la sua bella analisi su Culture Wars con una riflessione che trovo necessaria.

“Non è questione di prendersela con gli influencer tout court, né si può ridurre il discorso al semplice richiamo a un’etica del buonsenso sul web o all’educazione alle nuove tecnologie: l’orizzonte comunicativo e politico dei prossimi anni sarà imperniato sull’impossibilità sociale di tollerare oltre un Panopticon di mostri in prima pagina, anzi in primo scroll. Ci siamo dentro tutti e tutte, ed è ora di provare attivamente a uscirne”.

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La storia di Giovanna Pedretti e come i social network hanno alterato il dibattito pubblico

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