rotate-mobile
Domenica, 28 Aprile 2024

Il commento

Fabio Salamida

Giornalista

Nel Pd ci sono i marziani che vogliono sbarazzarsi di Elly Schlein

Nel Partito Democratico “c’è un disagio che sarebbe sbagliato ignorare”. Sono le parole di Lorenzo Guerini, ex Ministro della Difesa e capo di una delle innumerevoli correnti del cartello politico più tafazziano del globo terracqueo: quei gruppi organizzati specializzati nell’impallinare il segretario o la segretaria di turno. Gruppi che rivendicano il loro diritto di esistere in virtù di un pluralismo di idee che in realtà non esiste, perché di fatto l’unica idea che li caratterizza tutti e indistintamente potrebbe essere sintetizzata nella domanda “quanti posti mi spettano?”.

Un partito di generali senza esercito

E così, dopo Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Zingaretti (tra loro c’è stato Martina, ma era solo un reggente) e Letta, il nuovo bersaglio da abbattere è Elly Schlein. Per rendere l’idea del costante psicodramma, basta ricordare che da quando Matteo Salvini è saldamente alla guida della Lega (con risultati non sempre esaltanti…), il Pd ha cambiato ben sei segretari; cinque da quando Giorgia Meloni è la leader indiscussa di Fratelli D’Italia. Prima segretaria donna, eletta appena sei mesi fa, Schlein ha dovuto far subito i conti con il fuoco amico, subendo attacchi più o meno velati da più parti. A rendere ancor più complicata la sua permanenza al secondo piano del Nazareno, un fattore politico e uno culturale.

Quello politico è il suo essere un corpo estraneo: uscita nel 2015, in piena sbornia renziana, è rientrata da candidata alla segreteria ribaltando alle primarie il risultato del voto dei circoli, quelle sedi ridotte ormai da tempo a comitati elettorali dei vari “capetti” sparsi sui territori dalle correnti. Quello culturale sembra un paradosso, visto il posizionamento politico del Pd: è una donna relativamente giovane e si ritrova a dover gestire una pletora di generali senza esercito che nel loro intimo non hanno idee così tanto diverse da un altro generale salito agli onori delle cronache nelle ultime settimane. La generazione che non prova vergogna a sventolare il cedolino da parlamentare nell’aula di Montecitorio sostenendo che “non è certo uno stipendio d’oro” mal sopporta i giovani e fatica a vedere una politica donna che non sia una “quota rosa” a cui offrire un caffè in buvette.

Un passato inglorioso

Eppure i “vecchi” non possono vantare un glorioso passato da portare ad esempio. Un po’ di numeri: il Partito Democratico di Walter Veltroni esordisce nel 2008 e raccoglie 12 milioni di voti; nel 2013 il segretario è Pierluigi Bersani e i voti sono 8,6 milioni, un crollo di 3,4 milioni rispetto a cinque anni prima. Come spiegò Nicola Maggini del CISE nella sua relazione, oltre all’avvento del Movimento 5 Stelle a causare i netti cali del partito del Nazareno e del Pdl, all’epoca suo principale competitor, fu la diminuzione della partecipazione elettorale, che calò di circa cinque punti percentuali (dall’80,5% al 75,2%). Tradotto in numeri assoluti, si recarono alle urne poco più di due milioni e seicentomila votanti in meno, ossia più del calo fisiologico della partecipazione dovuto all’avvicendamento generazionale, stimabile attorno a 2 punti percentuali di flessione. Insomma, i voti del Pd, sin dai suoi primi anni di vita, si dileguano nell’astensionismo perché i suoi stessi potenziali elettori non si sentono più rappresentati da quello che si caratterizza fin da subito come il partito del tutto e niente. Alle politiche del 2018 il Pd raccoglie appena 6,1 milioni, nel 2022 si ferma a 5,3 milioni. Una costante discesa non certo imputabile all’attuale segretaria e al suo gruppo dirigente, insomma.

Parole a caso

L’ultimo atto della costante guerriglia interna è stato l’uscita di 31, tra eletti e dirigenti, in quella Liguria che alle ultime tornate elettorali non ha certo collezionato trionfi; hanno trovato subito accoglienza in casa Calenda e accusano la loro ex segretaria di aver spostato l’asse troppo a sinistra, tradendo la fantomatica vocazione “riformista”. Sì, perché un’altra costante del lessico interno del Pd è l’utilizzo di parole a caso: un peccato originale che risiede già nel nome (…chi non è democratico in fondo?) e si declina nelle inascoltabili logorree dei vari esponenti. “Riformista” è una delle più gettonate e per ironia della sorte, o forse no, è anche il nome della testata attualmente diretta da Matteo Renzi. Su cosa dissenta la cosiddetta “ala riformista” aleggia un mistero paragonabile al futuro politico di Marta Fascina: di sicuro reclamano “agibilità politica” (posti, invitate in tv…), rappresentanza delle loro istanze nei gruppi dirigenti (posti…), condivisione delle scelte sulle candidature nazionali e locali (posti…). Nei loro documenti criticano “un regresso verso un antagonismo identitario” e vorrebbero un partito a “vocazione maggioritaria”, forse dimenticando di essere gli stessi che lo hanno reso un partito a vocazione minoritaria.

Così, mentre al Governo mancano le coperture per mezza manovra finanziaria, gli sbarchi record smentiscono anni di propaganda becera sulla pelle di migliaia di disperati, il cambiamento climatico mette a dura prova le fragilità del Paese, i prezzi volano e l’economia rallenta, le bande di marziani disadattati che popolano quello che dovrebbe essere il principale partito di opposizione organizzano l’ennesima faida interna per cacciare l’ennesimo segretario. In fondo Lorenzo Guerini dice il vero, nel Pd c’è un disagio che sarebbe sbagliato ignorare.

Continua a leggere su Today.it...

Si parla di

Nel Pd ci sono i marziani che vogliono sbarazzarsi di Elly Schlein

Today è in caricamento