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Lunedì, 29 Aprile 2024

Giorgio Beretta

Opinionista

Zaki, Regeni: perché l'Italia non smette (almeno) di inviare armi all'Egitto?

L'ignobile condanna per "istigazione alla violenza e al terrorismo" di Patrick Zaki, la cui cittadinanza italiana è stata decisa da oltre un anno nei due rami del parlamento senza alcun voto contrario ma di fatto mai eseguita, e ancora più il brutale assassinio di Giulio Regeni, di cui sono accusati tre ufficiali della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano, ripropongono all'attenzione le possibilità di azione nei confronti di uno Stato, come l'Egitto, in cui le violazioni dei diritti umani sono gravi e ampiamente documentate.

Oltre alle prese di posizione da parte del governo e alle iniziative diplomatiche, c'è una misura che il diritto internazionale e la nostra stessa legislazione prevede: il divieto di esportare armi e sistemi militari (lo chiedono da anni Amnesty International e Rete Italiana Pace e Disarmo). “L'esportazione (…) e l'intermediazione di materiali di armamento sono altresì vietati verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell'UE o del Consiglio d'Europa” stabilisce con chiarezza la legge n. 185 del 1990 all'articolo 1.

Le risoluzioni del Parlamento europeo

Anche il Parlamento europeo, richiamando specificatamente i casi di Patrick Zaki e Giulio Regeni oltre alle numerose violazioni dei diritti umani in Egitto, si è espresso ripetutamente con diverse risoluzioni votate ad ampia maggioranza per chiedere agli Stati membri di “sospendere tutte le esportazioni verso l'Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature di sicurezza in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani e gli attivisti della società civile, anche sui social media, nonché qualsiasi altro tipo di repressione interna” (si vedano la Risoluzione del 10 marzo 2016Risoluzione del 18 dicembre 2020 e Risoluzione del 24 novembre 2022).

Come si può notare queste risoluzioni non chiedono di vietare tutte le esportazioni di materiali e sistemi militari, ma specificatamente quelle armi e tecnologie di sorveglianza “in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani e gli attivisti della società civile”. E' una limitazione significativa perché, se è vero che tutti i sistemi militari contribuiscono ad accrescere l'arsenale bellico di uno Stato, è altrettanto vero che sono soprattutto le cosiddette “armi leggere” a essere impiegate dagli apparati militari e della sicurezza per la repressione interna. Mentre, infatti, risulta difficile ipotizzare l'utilizzo di navi militari – come le due fregate che l'Italia ha fornito all'Egitto – per soffocare manifestazioni popolari, sono proprio le “armi leggere” che si prestano a essere usate per la repressione interna. Fornire queste armi alle forze armate e di sicurezza dell'Egitto significa, in concreto, sostenere le politiche repressive del regime di Al Sisi e dargli gli strumenti per attuarle.

Le armi leggere per la repressione interna

E, come ha documentato un ampio rapporto dell'associazione EgyptWide – al quale mi pregio di aver contribuito insieme a numerosi altri ricercatori –, le “armi leggere e di piccolo calibro” anche di fabbricazione italiana sono state impiegate dalle forze di sicurezza e da attori statali egiziani per la repressione interna, per commettere abusi e violazioni dei diritti umani.

Alle numerose armi italiane segnalate nel rapporto vanno aggiunte – come riporto nel mio libro "Il Paese delle armi" (Edizioni Altreconomia) le forniture autorizzate il 24 febbraio 2021 dal governo Draghi alla Fabbrica d'armi Beretta di altri 96 fucili d’assalto ARX-160 comprensivi di 576 ricambi e di una settimana di corso di formazione, il tutto per un valore di 440.335 euro e in aggiunta 118 pistole semiautomatiche calibro 9x19 con parti di ricambio, sempre della Beretta per poco più di 50mila euro. Lo scorso anno l'Italia ha continuato a fornire agli apparati militari e della sicurezza di Al Sisi strumenti utilizzabili per la repressione interna tra cui armi automatiche e relative munizioni, apparecchiature elettroniche e finanche “apparecchiature specializzate per l’addestramento militare” insieme a bombe e missili per un valore complessivo di oltre 72,7 milioni di euro.

Non solo. Lo scorso maggio il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e il capo di Stato maggiore della Difesa, Giuseppe Cavo Dragone, sono stati ricevuti al Cairo dove hanno incontrato il presidente Abdel Fattah al Sisi e il ministro della Difesa egiziano, Mohamed Zaki, con i quali – riportava l'Agenzia Nova – “hanno concordato di proseguire nello sviluppo della cooperazione in ambito militare”. Un modo, nemmeno troppo celato, per dire che l'Italia continuerà ad armare e addestrare le forze armate di Al Sisi.

Giustificazioni ipocrite

Quando si avanzano proposte di sospensione dell'invio anche solo di “armi leggere” vengono solitamente sollevate due obiezioni. La prima suona più o meno così: “Se non le forniamo noi, le forniranno altri”. Se questo può essere astrattamente vero, non lo è nei fatti e soprattutto nella sostanza. Innanzitutto perché un preciso articolo della Posizione Comune 2008/944/PESC dell'Unione Europea chiede a tutti i Stati membri di rifiutare “licenze di esportazione qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna” (Art. 2.2). E un successivo articolo rende di fatto molto difficile per uno Stato membro poter autorizzare un'esportazione di armi che sia stata rifiutata da un altro Stato membro “per un’operazione sostanzialmente identica nei tre anni precedenti” (Art. 4.1). Il rifiuto da parte dell'Italia di fornire determinate armi all'Egitto avrebbe perciò un effetto positivo e limitativo anche sugli altri paesi dell'Ue.

Ma soprattutto perché la sospensione dell'invio di armi a un regime che viola palesemente i diritti umani come l'Egitto di Al Sisi rappresenta già in se stessa, al di là della sua efficacia fattuale, un segnale forte e chiaro di esplicita condanna delle violazioni e delle politiche repressive messe in atto da quel regime. E' proprio questa condanna esplicita che l'Italia ha mancato di mettere in campo in questi anni a fronte dei casi Regeni e Zaki che ci riguardano direttamente.

La seconda obiezione è quella secondo cui le forniture di armi leggere rappresenterebbero poca cosa rispetto agli affari miliardari in altri settori come quello estrattivo in cui l'ENI è pienamente attiva. Se cosi fosse è vero semmai il contrario. E, cioè, la poca rilevanza dal punto di vista economico delle forniture di “armi leggere” e tecnologie di controllo dovrebbe indurre a utilizzare almeno questo strumento considerato che gli effetti di un blocco di queste forniture non rappresenterebbe un danno economico rilevante né per le aziende che producono queste armi e tecnologie e ancor meno per l'economia italiana. Ma anche in questo caso ciò che viene valutato non è la rilevanza economica, ma il segnale che viene lanciato. Un segnale di chiara condanna delle politiche repressive di un regime. Che non si vuole mettere in campo per non compromettere altri e ben più lucrosi affari. Come, appunto, quelli dell'ENI. 

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