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Sabato, 27 Aprile 2024
SANITÀ A RISCHIO

Il decreto Calderoli trasforma il diritto alla salute in privilegio

Il Governo accelera sull’autonomia differenziata delle regioni sulla strada della privatizzazione della Sanità. Un provvedimento che si inserisce in un contesto di tagli e disuguaglianze che ci pone di fronte al paradosso: a fronte di una popolazione sempre più anziana il diritto alla salute si sta trasformando in un privilegio

“I paradossi sono sempre pericolosi” sentenziava Oscar Wilde. Non deve essere dello stesso avviso il Governo a trazione “sovranista” che, a dispetto di tricolori e nazionalismo fieramente esibito, sta di fatto dando il via a uno dei sogni della Lega Nord della prima ora. Il decreto Calderoli, a cui l’Esecutivo ha dato il via libera lo scorso 5 aprile e che si appresta ora al suo iter parlamentare, rischia infatti di scavare un ulteriore solco tra la sanità del Nord e quella del Sud Italia. E a nulla valgono le parole dal tono orwelliano della premier Meloni: “Con il disegno di legge quadro sull'autonomia puntiamo a costruire un'Italia più unita, più forte e più coesa”. L’impressione è che la riforma dell’autonomia differenziata, almeno in ambito sanitario creerà un ulteriore vulnus all’unità nazionale e a un Servizio Sanitario Nazionale già in crisi da anni.

Perché si va verso diseguaglianze e privatizzazione del SSN

La premessa è che il ministro Calderoli non ha inventato nulla di nuovo. Nell’ordinamento costituzionale italiano c’è un anno zero: il 2001. In quell’anno viene approvata la riforma del titolo V della Costituzione che ribalta il rapporto tra Stato Centrale e Autonomie Locali. Da quel momento in poi vengono elencate le competenze specifiche dello Stato Centrale e vengono invece definite le materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Gli ambiti sono molteplici. Citiamo per brevità quelli che riguardano la vita quotidiana di tutti noi come: sanità, istruzione, lavoro, rapporti internazionali e con la Ue, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Da anni tre regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna) chiedono di accelerare sul decentramento invocando maggiore autonomia su quasi tutte le materie di legislazione concorrente, come assicurato dall’articolo 116 della nostra Costituzione. La riforma promossa da Calderoli va incontro a questa richiesta, ma pone non poche domande sulla tenuta dell’unità nazionale soprattutto per quanto rigurda la sanità. È ovvio che, in presenza di sistemi differenziati, il diritto alla salute deve essere garantito su tutto il territorio italiano. Per questo si ricorre a dei parametri condivisi. Gli standard di prestazioni minime da garantire su tutto il territorio nazionale sono definiti dai LEP (acronimo che sta per Livello Elementare delle prestazioni), così come per la Sanità venivano individuati con i LEA (Livello essenziale di assistenza). Ma già qui incappiamo nel primo ordine di problemi. Secondo la riforma questi livelli verranno stabiliti tramite DPCM governativi sulla base delle valutazioni di una commissione tecnica. E in quanto atti amministrativi potranno essere impugnati di fronte al Tar e non davanti alla Corte Costituzionale. Ma, cosa davvero essenziale, il testo non definisce le adeguate riforme finanziarie per raggiungerli, specificando però che non dovrà essere fatto deficit aggiuntivo. Tradotto: o si aumentano le tasse per i contribuenti o si tagliano altre spese pubbliche.

Ma non basta: le funzioni attribuite alle autonomie locali, secondo il ddl, dovrebbero essere finanziate attraverso la compartecipazione al gettito di una o più entrate. Un’ipotesi in campo è che una parte di Irpef resti alle singole Regioni, una dinamica che potrebbe acuire fortemente le disuguaglianze fra le regioni del Nord e del Sud e indebolire la redistribuzione delle risorse su scala nazionale.

La Premier Meloni in Aula con il ministro Calderoli-2

In tutto questo scenario il Parlamento è pressoché assente: secondo il ddl le intese vengono siglate tra le Regioni e il Governo, le Camere sono tenute ad esprimere solo un parere non vincolante.

E a livello pratico, considerando le richieste delle regioni, le cose vanno anche peggio. Salari e contratti del personale potrebbero essere demandati alle singole realtà locali. Trattamenti salariali differenziati per quanto riguarda il personale medico e sanitario a livello regionale si tradurranno così molto probabilmente nella migrazione dei professionisti verso le aziende sanitarie che offrono i migliori stipendi. La gestione regionale dei contratti potrebbe comportare invece un’accelerazione sulle collaborazioni a partita Iva, ad esempio, svuotando il gettito fiscale generale. A rischio c’è ovviamente la contrattazione collettiva nazionale in favore di una territoriale ad hoc che potrebbe favorire le aree più ricche.

Con l’autonomia promossa da Calderoli, le Regioni potrebbero legiferare, ad esempio, sulle scuole di specializzazione per medici e perfino sui fondi destinati alla sanità privata, un aspetto che un rapporto della fondazione Gimbe sul tema non esita a definire come “eversivo”. In particolare con il decreto potrà esserci maggiore autonomia nella gestione e nell’istituzione dei fondi sanitari integrativi, come richiesto ad esempio dal Veneto. Una spinta indiretta a formulare assicurazioni sanitarie private anche grazie alla deducibilità fiscale delle stesse. Un bel regalo alla sanità privata e un input all’avvio di sistemi assicurativo-mutualistici regionali totalmente sganciati dalla, seppur frammentata normativa nazionale.

“Concedere alle Regioni maggiori autonomie in materia di ‘tutela della salute’ darà inevitabilmente il colpo di grazia ai princìpi di equità e universalismo che caratterizzano il DNA del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Aumenteranno le diseguaglianze regionali e verrà normativamente legittimato il divario tra Nord e Sud, in violazione del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute. Peraltro, le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) sono quelle che erogano i migliori servizi sanitari e hanno maggiore capacità attrattiva sui pazienti del Centro-Sud, alimentando il fenomeno della “migrazione sanitaria” osserva Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.

Il tutto in una sanità che è già di per sé ampiamente decentrata e che, in molte aree dello Stivale, non garantisce più il diritto universale alla salute.

Così il governo sovranista sta realizzando la secessione della Sanità

A sottolineare la regionalizzazione del nostro Sistema Sanitario Nazionale ci pensa la fondazione Gimbe che monitora costantemente la singolarità di un sistema frammentato, capace di presentare eccellenze accanto a sacche di arretratezza e malasanità. E come è facilmente intuibile sono le regioni del Sud ad arrancare. Per avere un’idea è sufficiente guardare il livello dei LEA degli ultimi dieci anni per singola regione.

La mappa è realizzata tenendo presente il raggiungimento degli standard minimi di prestazione (LEA) nel periodo compreso tra 2010 e 2019. Come si evince facilmente siamo già di fronte a un’Italia a due velocità, con il Sud del Paese dove il raggiungimento di livelli accettabili è un optional e che costringe migliaia di italiani a una mobilità forzata verso le regioni del Nord.

I numeri vengono forniti dalla Corte dei Conti. Nel periodo compreso tra 2010 e 2019 quasi tutte le regioni del Sud sono risultate meno attrattive rispetto a quelle del Nord e hanno accumulato un saldo negativo di circa 14 miliardi di euro. Ogni qualvolta un cittadino decide di curarsi in un Regione diversa da quella di residenza viene infatti effettuata una compensazione finanziaria tra le due regioni (sia che stiamo parlando di pubblico che di privato accreditato). Il paradosso è che le Regioni che spingono maggiormente sull’Autonomia siano quelle che negli anni hanno realizzato più saldi positivi e che hanno sempre centrato gli obiettivi stabiliti dai LEA.

"Già oggi il SSN eroga un’assistenza sanitaria 'diseguale' e l’universalismo è ormai diventato 'selettivo' - sottolinea Nino Cartabellotta - le Regioni del Centro-Sud, dopo la riforma del Titolo V del 2001, non sono state in grado di organizzare adeguatamente i propri servizi sanitari, generando al tempo stesso enormi buchi nei propri bilanci. Di conseguenza, fatta eccezione per la Basilicata, tutte le Regioni del Mezzogiorno sono finite in Piano di Rientro (e la maggior parte non sono ancora uscite) o sono state addirittura commissariate (ad oggi lo sono Molise e Calabria). Esiste oggi indubbiamente una questione meridionale nella Sanità”. Una dinamica innescata anche da un definanziamento della Sanità pubblica che ci pone ormai molto lontani dagli altri paesi europei.

Quei “tagli” alla Sanità che ci allontanano dall’Europa

Da più di vent'anni in Italia è presente un allarme natalità. Ma se non cresce da anni il numero dei nuovi nati, ad aumentare drammaticamente è sia l’età media, sia il numero delle persone anziane. Una dinamica figlia sicuramente anche della migliore longevità garantita dagli standard di vita attuali, ma alla quale non si è risposto con azioni concrete.

Perché l’evidenza (banale) è che all’aumentare dell’età aumentano anche le patologie e diventa essenziale l’intervento di un sistema sanitario efficiente. Dalla crisi finanziaria del 2008, con l’eccezione della pandemia, si assiste invece a un costante ma graduale definanziamento della sanità pubblica. Sì perché se nel 2009 spendevamo, in rapporto al Pil più della Germania in Sanità pubblica, oggi siamo di fatto ben al di sotto della media Ocse e superati persino dai nostri cugini spagnoli.

Come osservato dall’Osservatorio per i conti pubblici della Cattolica fra il 2000 e il 2023 la spesa è quasi raddoppiata in termini nominali, da 68 a 131 miliardi di euro. Tuttavia, se si considera la spesa al netto dell’inflazione, l’aumento si riduce al 19%. Un incremento, concentrato nei primi anni del secolo, completamente insufficiente per stare al passo con l’invecchiamento progressivo della popolazione. E anche se nel 2021, sotto la spinta della pandemia, il rapporto tra PIl e spesa sanitaria si è attestato sulla cifra "record" del 7.3% si è poi scesi verso il 7% nel 2022 e si va verso il previsto 6.6% del 2023. Percentuali assolutamente non comparabili con quelle degli altri paesi Ocse.

"La crisi di sostenibilità del SSN sta raggiungendo il punto di non ritorno tra l’indifferenza di tutti i Governi che negli ultimi 15 anni, oltre a tagliare o non investire in sanità, sono stati incapaci di attuare riforme coraggiose per garantire il diritto alla tutela della salute. Nel 2021 la spesa pubblica pro-capite nel nostro Paese è stata inferiore alla media OCSE ($ 3.052 vs $ 3.488) e in Europa ci collochiamo al 16° posto. Il confronto con i Paesi del G7 è semplicemente impietoso” osserva Nino Cartabellotta.

E la frammentazione territoriale della Sanità mette a rischio anche la gestione dei fondi del PNRR che dovrebbero essere tendenzialmente utilizzati per ridurre le disuguaglianze: “La destinazione d’uso dei fondi della Missione Salute del PNRR è ben definita: rafforzare l’assistenza territoriale, innovare le tecnologie, potenziare digitalizzazione e telemedicina. È un’opportunità irripetibile, ma per ridurre le diseguaglianze regionali ed ottenere il massimo ritorno di salute dalle risorse investite è necessario predisporre le adeguate contromisure per fronteggiare le numerose difficoltà di attuazione che riguardano vari ambiti - aggiunge Nino Cartabellotta - e la riforma Calderoli va nella direzione contraria di uno strumento che mira a ridurre le disuguaglianze regionali e territoriali".

Nel 2000 il Sistema Sanitario Nazionale italiano era il secondo al mondo per efficienza dopo quello francese secondo l’OMS. A vent’anni di distanza, spingendo l’acceleratore su autonomie e investendo meno, per gran parte della popolazione un diritto si sta trasformando nemmeno troppo lentamente in un privilegio. Con buona pace della nostra Costituzione. 

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