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Venerdì, 26 Aprile 2024
Economia

Precari oggi, poveri domani: ecco le pensioni che ci aspettano

Carriere discontinue e basse retribuzioni rischiano di creare milioni di nuovi poveri: le future pensioni potrebbero essere, per molti, inferiori alla soglia di povertà ed è necessario agire ora

''Se dovessimo dare una simulazione di pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale''. Bastò un’affermazione dell’allora presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, al margine di un convegno, a scatenare la rabbia e l’indignazione di un’intera generazione. Era l’ottobre del 2010 e sull’Italia stava per abbattersi l’onda lunga della crisi finanziaria. A distanza di un anno sarebbe arrivato un governo tecnico e un decreto chiamato, senza troppa fantasia ''Salva Italia'' per garantire la sostenibilità del sistema statale e pensionistico. Dall’emergenza finanziaria siamo passati, in meno di dieci anni, a quella del terrorismo e poi a quella sanitaria. Ma a distanza di anni il problema delle pensioni di chi ha comininciato a lavorare dopo il ‘95, anno della riforma delle pensioni che segna l’esordio del sistema contributivo, è uno dei grandi rimossi italiani. Ho provato a simulare cosa potrebbe accadere dando uno sguardo al mio fascicolo previdenziale. 

In pensione a 70 anni in un puzzle previdenziale

Nel corso della mia vita ho accumulato varie esperienze. Ho una laurea triennale, una magistrale e un master. In totale tutto questo mi ha tenuto lontano dal mondo del lavoro per circa sei anni. La prima cosa che chiedo al Caf a cui mi rivolgo e se mi conviene riscattare gli anni di studio maturati. La risposta è spiazzante: conveniva forse prima, non ora che l’età della pensione è a 67 anni con almeno 20 anni di contributi (ed è destinata ad aumentare invariabilmente mi suggeriscono). Non è gratis e sarebbero molto probabilmente soldi sprecati.

Comincio quindi a ripercorrere la mia carriera lavorativa: parto dai due anni che ho speso all’estero lavorando, ma in cui non ho versato nulla alle casse dell’Inps (i pochi contributi mi sono tornati indietro sul conto anni fa).

Poi apro il mio fascicolo previdenziale (sul sito MyInps) e mi imbatto in un puzzle di casse previdenziali in cui ho versato diverse tipologie di contributi. Si parte dalla gestione separata dell’Inps dove ho due anni di contributi (scarsi) di uno dei primi lavoro che ho svolto: ero inquadrato come Co.co.co in un’agenzia di comunicazione.

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Vedo poi svariati anni di contributi versati alla gestione separata dell’Inpgi (la cassa previdenziale dei giornalisti) e altri versati alla gestione principale che però è stata riassorbita dall'Inps dopo il fallimento del 2021. Nel mio fascicolo previdenziale c’è spazio perfino nell’Ex Enpals, la cassa per i lavoratori dello spettacolo oggi riassorbita anch'essa dall’Inps. Cosa succederà domani con tutte queste diverse tipologie di contributi? Lo chiedo al Caf a cui mi rivolgo che mi risponde con una battuta: ''Forse per l’età della tua pensione non esisterà nemmeno più l’Inps''. Poi tornano seri e ammettono che non sanno darmi un consiglio: stando così le cose, quando andrò in pensione gli assegni verranno erogati dalle differenti casse dove li ho versati. Non sanno però dirmi se mi conviene ricongiungere i contributi delle diverse casse previdenziali all’interno di un’unica gestione.

Decido, a questo punto di rivolgermi direttamente all’Inps. Da qualche anno l’istituto nazionale di Previdenza mette a disposizione uno strumento che si chiama ''Pensami''. È sufficiente inserire i propri parametri per avere una proiezione dell’età nella quale ci si potrà ritirare dal lavoro e con quali condizioni. Con questi parametri, secondo le stime abbastanza approssimative del portale, potrei andare in pensione a 69 anni e 3 mesi, a patto di avere almeno 20 anni di contributi e solo se quanto erogato sarà superiore all’1.5% dell’assegno sociale del 2023 ovvero a 754 euro (un cifra ovviamente parametrata al 2023, ma da adeguare all’anno della pensione).

Apprendo quindi che, stando così le cose, andrei in pensione circa 10 anni dopo di quando lo hanno potuto fare i miei genitori e con un assegno molto più basso. Ma del resto il mondo è cambiato anche nel Welfare e per i nostri conti pubblici è un bene. Per la mia vita non saprei.

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Le pensioni future? Il riflesso delle nostre storie lavorative

Lo spartiacque per il mondo delle pensioni in Italia ha una data: il 1995. In quell’anno la riforma Dini sancì il passaggio definitivo dal sistema retributivo a quello contributivo per tutti quelli che si sarebbero affacciati nel mondo del lavoro dopo il 1996. Un cambio epocale: se prima di quella data le pensioni venivano erogate sulla base del cosiddetto ''sistema retributivo'' ovvero sulla base delle ultime retribuzioni percepite a fine carriera, da quel momento in poi le pensioni vengono calcolate sulla base dei compensi percepiti nel corso dell’intera vita lavorativa. Il capitale versato viene rivalutato annualmente sulla base dell’andamento trasformato in pensione annuale tramite i cosiddetti coefficienti di trasformazione che sono basati sull’età del pensionando. Tradotto: più tardi si va in pensione minore è l’aspettativa di vita e quindi maggiore l’assegno erogato.

Dalla legge Treu in poi, anno di grazia 1997, si sono susseguite una serie di riforme volte a flessibilizzare il mercato del lavoro. Una dinamica che ha eroso fortemente la percentuale di contributi versati in media da milioni di lavoratori e che ha alimentato la credenza diffusa di un’intera generazione. Parliamo di quel ''Tanto non avremo mai una pensione'' che si confonde con quel ''Well, Whatever Never Mind'' cantato dai Nirvana diventato un vero e proprio mantra di quegli anni. Un’affermazione non pienamente vera, come spiega Michele Raitano, docente di Politica Economica alla Sapienza di Roma ed esperto di tematiche previdenziali: ‘’La riforma contributiva fa sì che di fatto, lo stato ti ridia indietro i contributi versati in precedenza, quindi l’affermazione che ‘in molti non avranno una pensione’ o che gli importi siano genericamente più bassi non è corretta: chi avrà una carriera piena, con retribuzione elevate, percepirà comunque un buon assegno. Tuttavia questo sistema, che è sicuramente più equilibrato dal punto di vista del bilancio, rischia di non esserlo da un punto di vista sociale''.

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E a rischio sono tutti quelli con carriere discontinue o con scarse retribuzioni, ad oggi gran parte della forza lavoro italiana: ''il problema è che questo sistema è lo specchio di quello che avviene durante tutta l’attività lavorativa: persone che hanno carriere fragili e precarie rischiano di avere pensioni di importi molto bassi e il quadro è abbastanza inquietante in assenza di correttivi - sottolinea Raitano che aggiunge - parliamo del 40- 50% delle persone entrate nel contributivo che hanno versato pochissimi contributi e se le cose non cambiano queste persone avranno una pensione molto bassa che, a differenza di quanto avviene nel retributivo, non contempla più nessun tipo di integrazione, come succede, ad esempio, con pensioni minime. Queste persone inoltre rischiano di andare in pensione molto più tardi se l’importo sarà inferiore a quello dell’assegno sociale''.

La pensione diventa, in questo contesto, una specie di purgatorio dove vengono scontati i periodi di inattività, disoccupazione, part-time involontario che hanno condizionato la vita lavorativa e che rischiano di ripercuotersi anche nella terza età. Si pensi che, in base a stime Inps, nel 2021 il 40% dei dipendenti italiani ha dichiarato un reddito inferiore a 15mila euro l’anno.

Per avere un’idea di quello che potrebbe aspettarci è possibile consultare ''Il Rapporto sullo Stato sociale 2022'' edito da La Sapienza di Roma è curato dallo stesso Raitano. Nel volume è presente uno studio sui primi venti anni di carriera di chi si è affacciato nel mondo del lavoro tra il 1996 e il 1998. E le stime non sono certo rassicuranti, come si può intuire sotto.

Appena il 40% dei lavoratori presi in considerazioni può vantare un’esperienza lavorativa continuativa, senza ''buchi''. Per la restante parte dei lavoratori assistiamo a una carriera frammentata. Solo il 17.5% ha trascorso gli interi 20 anni senza essere identificato come ''lavoratore povero'' ovvero come persona che pur lavorando ha avuto un reddito da lavoro inferiore al 60% del reddito mediano (ovvero, inferiore a circa 12.000 euro lordi annui). 

Gli autori suggeriscono che alcuni dati possono risultare sovrastimati dal momento che il dataset utilizzato non distingue periodi volontari o involontari di assenza dal lavoro. Ma danno comunque un’idea generale abbastanza attendibile sul quale fare proiezioni. Su questi parametri gli autori hanno infatti estrapolato delle previsioni pensionistiche che non autorizzano a stare tranquilli.

Raitano 2022 in Rapporto sullo Stato Sociale a cura di Pizzuti, Raitano, Tancioni-5

(Raitano 2022 in Rapporto sullo Stato Sociale a cura di Pizzuti, Raitano, Tancioni)

Analizziamo, ad esempio, le diverse pensioni di un gruppo di lavoratori all’età di 67 anni a parità di anni di contribuzione (43). Un lavoratore con salario medio percepirebbe, ad oggi, una pensione di 1341 euro, un lavoratore con salario pari al 60% di quello mediano appena 773 euro. Prendendo quest’ultima variabile (salario pari al 60% della mediana) le cose si complicano nel caso di buchi contributivi. Un anno di buco ogni cinque lavorati fa scendere la pensione a 650 euro, uno ogni tre a 594 euro. Una soglia molto vicina a quella dell’assegno sociale 


L’età della pensione è il vero gap generazionale

L’ultimo capitolo si è registrato in Francia. L’innalzamento dell’età pensionistica nel paese transalpino ha provocato un’ondata di scioperi dal carattere quasi epocale. Eppure l’aumento dell’età pensionistica in Europa è una costante. L’Italia non fa eccezione: se nel 1980 nel nostro paese si poteva andare in pensione di vecchiaia ad appena 55 anni (e in pensione anticipata) ad appena 47 anni, ora l’età è fissata a 67 anni con 20 anni di contributi ed è, molto probabilmente, destinata a salire, al di là delle disposizioni di legge. 
 

''Ritirarsi più tardi vuol dire avere una pensione più alta. La ragione è molto semplice: se vado in pensione successivamente il mio montante contributivo lo consumerò in numero minore di anni e quindi le mensilità e le annualità saranno più alte. Il montante è convertito infatti sulla base dell’aspettativa di vita media residua. L’innalzamento dell’età pensionistica, processo che in Italia va avanti in maniera illimitata anche per l’alzarsi del livello dell’aspettativa di vita, è finalizzato anche ad alzare l’importo delle pensioni basate sul contributivo ed è il vero gap fra generazioni'' sottolinea Raitano. Il problema è che, molto spesso, le pensioni erogate in Italia sono figlie delle distorsioni originate dal sistema che ci ha preceduto, come si evince anche dal grafico sotto. 

Quasi il 5% delle pensioni presentano importi superiori a 3mila euro, per queste ultime viene erogata il 18.7% della spesa pensionistica totale, mentre se si guarda ai pensionati (quindi a coloro che possono percepire anche pensioni da più casse previdenziali), la percentuale di persone che percepiscono un importo ai 3mila euro annui sale al 9.1% per quasi il 25% della spesa previdenziale totale. Importi figli molto spesso di un sistema molto più generoso dell’attuale che contemplava uscite anticipate in età giovanile con un assegno proporzionale all’ultima retribuzione della carriera.

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''Il vecchio schema aveva un problema di prestazioni molto generose rispetto ai contributi versati per la formula basata sul fine carriera: banalmente chi andava in pensione con un’ultima retribuzione elevata poteva prendere pensioni di svariate migliaia di euro e molto spesso c’era la prassi della promozione a fine carriera sottolinea Raitano, che però aggiunge - non ne farei però un problema di pensioni alte, era fatto così il sistema: ci sono persone anche con pensioni basse che sono andate in pensione versando molto poco, meno comunque di quanto percepiscono. E non ne farei nemmeno una questione giovani e anziani: il sistema contributivo elimina solo alcune distorsioni. Il vero problema è quello che avviene nel mercato del lavoro, dove servono dei correttivi urgenti come salario minimo, limitazioni dei contratti precari e delle forme atipiche, incluso il part-time involontario''.

Ma anche questi correttivi potrebbero non essere sufficienti per portare le pensioni di milioni di persone su livelli accettabili. Esistono le pensioni integrative, ma sono di fatto sono inaccessibili per i lavoratori più poveri e vengono spesso sottoscritte da chi non ne ha bisogno. Per questo in molti, tra cui, per primo da anni il professor Raitano, insistono per una pensione contributiva di garanzia. Parliamo dell’introduzione, all’interno del sistema pubblico contributivo, di un importo garantito non uguale per tutti, ma che sia legato ad esempio agli anni di contribuzione o all’età di ritiro, premiando chi rimane al lavoro, ma cercando di sanare tutti quei buchi contributivi che, carriere molto più frammentate di quelle del ‘900, producono.

''È essenziale inserire nuovamente una forma di integrazione al minimo che sia limitata agli anni in cui si è stati attivi. Quindi non una misura assistenziale, ma una di garanzia ad hoc tarata sulle carriere degli ex lavoratori. Inoltre una misura simile alleggerirebbe di fatto le attuali misure di contrasto alla povertà'' sottolinea Raitano. Perché se è vero che finora non abbiamo avuto sommovimenti sociali il rischio è di dover far fronte a una nuova epidemia fra qualche anno. Si chiama povertà e va curata prima che diventi endemica.

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