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Sabato, 27 Aprile 2024
Principi infranti

Così i più ricchi pagano già meno tasse

Si torna a parlare di rivoluzione fiscale con il Governo che promette l’ennesima riforma dell’Irpef e i sindacati sul piede di guerra. Ma nonostante una tassazione tra le più alte dell’Occidente, il principio di progressività sancito dalla Costituzione è un mito già infranto

Puntuale, con l’avvento di ogni nuovo Governo, arriva il tempo di una promessa. Da oltre trent’anni, soprattutto da destra, si annuncia una “rivoluzione fiscale” capace di rimpinguare le tasche di cittadini sempre più impoveriti e ridare slancio alle imprese. Ma, da decenni, la montagna sembra più che altro impegnata a partorire il topolino. E più che a rivoluzioni si assiste, anno dopo anno, a una fitta selva di interventi normativi che hanno però di fatto svuotato uno dei principi costituzionali più avversati degli ultimi anni.

La progressività fiscale è il frutto del compromesso tra le grandi famiglie politiche che nel ‘47 scrissero la nostra Costituzione. Afferma che non solo un contribuente è tenuto a pagare in proporzione a quanto possiede, ma a concorrere di più, a livello percentuale, di uno più povero. Tradotto: più guadagno, più la percentuale di tasse e imposte sul reddito che dichiaro sarà alta. E se il sogno, in particolare della parte leghista, è quello di una vera e propria Flat Tax, ovvero di una “tassa piatta” di uguale valore, applicabile a tutte le classi sociali, questo principio si è in parte già avverato per il lavoro autonomo. Tutte le Partite Iva forfettarie fino a 85.000 euro sono tenute oggi a pagare un’aliquota base del 15%.

Ora il governo Meloni annuncia una riforma fiscale che porterebbe l’IRPEF da quattro a tre scaglioni e che contemplerebbe l’abolizione dell’IRAP (acronimo che sta per importo regionale sulle attività produttive). La narrazione ricalca quella proposta da Berlusconi nel 1994: l’Italia come un Paese schiacciato dal peso delle tasse e della burocrazia, bisogno di meno Stato e più mercato. Ma quanto c’è di vero? E fino a che punto il principio di progressività è ancora valido?

La verità, nient’altro che la verità, sulla pressione fiscale italiana

La premessa è difficilmente smentibile: il carico fiscale italiano in rapporto al Pil è abbastanza gravoso. Ce lo ricorda, fra gli altri, ogni anno anche l’Ocse. Parliamo della percentuale di prodotto interno lordo che lo Stato preleva ogni anno con l’imposizione fiscale per far fronte alla spesa pubblica o ad altri obiettivi macroeconomici. Il rapporto si aggirava nel 2021 sul 43,5% una media superiore a quella di molti paesi, anche se inferiore a quella dei nostri cugini francesi.

Da più di venti anni la pressione fiscale in rapporto al Pil non scende mai sotto al 40% ed è mediamente più elevata della media Ocse, ma anche di quella della Germania, tanto per rimanere nel nostro Continente. Ma qual è la categoria sociale che sostiene questo carico? Perché dire “tasse” e "imposte" è abbastanza generico: quali sono quelle che paghiamo di più (o di meno) in rapporto con le altre nazioni?

Scorrendo i dati Ocse si nota che il nostro Paese ha il primato per le imposte sulle persone fisiche (la nostra Irpef, per intenderci) e, nonostante l’alto tasso di evasione, ha un gettito proveniente dalla tassazione di beni e servizi (ad esempio proveniente dall’applicazione dell’Iva o delle accise) inferiore solo a quello francese. Non si può dire la stessa cosa però sui profitti d’impresa, dove la pressione fiscale è di quasi due punti di gettito sotto la media Ocse. Mentre è ancora il nostro cuneo fiscale, ovvero le imposte che gravano sul costo del lavoro, a essere di più di otto punti superiore.

“In confronto agli altri paesi occidentali, la nostra pressione fiscale è particolarmente elevata soprattutto sul lavoro dipendente. Infatti, guardando le statistiche pubblicate da Eurostat, l'aliquota effettiva sui redditi da lavoro, pari al 42,9% nel 2021, era la più alta tra tutti i paesi europei, quella sulle grandi imprese non bancarie, pari al 23,9% nel 2021, era la quinta più elevata - osserva il professor Alessandro Santoro, docente di Scienza delle Finanze all’Università di Milano Bicocca che aggiunge - Sempre utilizzando i dati Eurostat, nel 2021 il cuneo fiscale sul lavoro dipendente in Italia è stato pari (prendendo ad esempio un lavoratore con una retribuzione pari al 50% di quella media e senza carichi familiari) al 36,6%. È l'ottavo valore più elevato in Europa. Le cause principali sono nell'alta aliquota di tassazione effettiva del reddito da lavoro (a carico del lavoratore) e nell'alta aliquota contributiva a carico dei datori di lavoro”.

Riassumendo, in Italia abbiamo un problema di tassazione elevata sul lavoro dipendente e sulle attività produttive, ma gli scenari sono abbastanza diversi da quelli paventati dai profeti della Flat Tax nostrana. Perché se c’è qualcuno che paga molto, c’è qualcuno che paga molto meno della media.

C’era una volta l’Irpef

Quando venne creata nel 1974 fu salutata come il compimento del dettato costituzionale. L’imposta sulle persone fisiche, che verrà conosciuta come Irpef, conteneva ben 32 aliquote, si passava da un minimo di 10% di contribuzione fino a un massimo del 72% per scaglioni di reddito da 2 a 500 milioni di lire di allora. Parliamo ovviamente di aliquote marginali, ovvero che si applicano solo sulla parte di reddito che eccede lo scaglione precedente. Fu varata, sul modello dell’"Income Tax" americana, all’apice di un processo di contestazione e di una domanda di eguaglianza non più eludibile. Nel mondo, del resto, l’economista di riferimento era ancora John Maynard Keynes, la classe operaia era ancora in grado di sfidare quelle che da lì a poco avremmo chiamato multinazionali e non esisteva certo la telematica per spostare capitali in un click. Ad oggi l’Irpef è ancora il cardine del nostro sistema fiscale, come si può vedere sotto.

Insieme alla tassa sul valore aggiunto di beni e servizi (Iva) garantisce ancora la maggioranza del nostro gettito fiscale, ma è ormai molto diversa da quella ideata nel 1974. Nel 1986 il governo Craxi ridusse a cinque i trentadue scaglioni originari, riducendo di circa 10 punti percentuali l’aliquota più alta e alzando di due punti quella più bassa. Fu il primo colpo al principio di progressività alla quale la legge si ispirava: non sarebbe stato l’unico. La maggior parte dei governi (sia di centrodestra, che di centrosinistra) hanno avvicinato negli anni le aliquote più alte a quelle più basse. Con il relativo carico di esenzioni, detrazioni e deduzioni, le modifiche alla legge sono state oltre 200 dalla riforma craxiana, una dinamica che ha creato molti stati di “eccezione” per numerose categorie sociali. Con Draghi gli scaglioni sono stati ridotti ulteriormente da cinque a quattro, mentre il Governo guidato da Giorgia Meloni promette oggi di portarli a tre. Ma il problema non sta tanto (o meglio non solo) nella riduzione degli scaglioni. Se l’obiettivo dell’introduzione di un'imposta come l’Irpef era infatti quello di uno strumento semplice, in grado di tenere conto di tutti i redditi degli italiani, dobbiamo notare che, a distanza di quasi 50 anni questo progetto è definitivamente fallito.

Perché i più ricchi pagano già meno

Teoricamente, anche se indebolito, l’impianto Irpef italiano è ancora abbastanza progressivo . Come fotografato da “Itinerari previdenziali”, la maggior parte della tassa è sulle spalle di pochi contribuenti, prevalentemente appartenenti alla classe media o medio-alta, come si può facilmente vedere sotto.

Le classi di reddito che oscillano tra 20mila e 100mila euro contribuiscono a quasi il 60% del gettito totale. Il punto vero è però un altro: chi paga oggi l’Irpef? Dalla famosa imposta per tutti i redditi degli italiani degli anni ‘70, si è passati negli anni infatti, a una vera e propria tassa per i soli dipendenti. Più dell’80% di chi contribuisce al gettito Irpef è infatti oggi un dipendente o un pensionato. Una trasformazione figlia sicuramente delle profonde trasformazioni della società che ha cambiato progressivamente anche le professioni degli italiani. Ma non c’è solo questo aspetto. Il punto è che l’Irpef non contempla ormai molte categorie di reddito che vengono tassate con regimi di privilegio. Al di là dei già citati autonomi a partita Iva con regime forfettario, è quasi imbarazzante apprendere che, ad esempio, interesse e plusvalenze di titoli pubblici vengano tassati al 12%, molto meno dell’ultimo scaglione Irpef. Ma è una storia comune per quasi tutti i redditi da capitale: quelli provenienti da dividendi o plusvalenze finanziarie tassati al 26% o i redditi provenienti da canoni di affitti e locazione che vengono tassati al 21% sul canone libero o addirittura al 10% per quanto riguarda il canone concordato. A tutto questo bisogna aggiungere la già citata "selva" di deduzioni, detrazioni ed esenzioni che spesso vanno a vantaggio delle categorie più abbienti.

“L'Irpef si è progressivamente svuotata nel corso degli ultimi decenni - spiega Alessandro Santoro - tutti i redditi da capitale, finanziario e immobiliare sono fuoriusciti dalla sua base imponibile e sono soggetti ad aliquote proporzionali, in alcuni casi di livello basso, come ad esempio le aliquote della cedolare secca sulle locazioni di immobili. Di questa beneficiano i proprietari immobiliari, soprattutto quelli con più di un immobile che, in precedenza, non riuscivano a sfuggire al prelievo Irpef ad aliquote marginali elevate (il 43% o poco di meno). In effetti, la cedolare secca non ha alcuna giustificazione né sotto il profilo dell'efficienza e tantomeno su quello dell'equità. Considerando, poi, che una parte significativa dei redditi da lavoro autonomo e da impresa sono sottoposti ad altri regimi agevolati, in primis la cosiddetta flat tax al 15% del regime forfettario, non ci si può stupire del fatto che, dei 160 miliardi di euro circa di Irpef netta del 2021, 95,5 siano stati a carico dei lavoratori dipendenti e 59 a carico dei pensionati: queste due categorie sopportano quindi il 96,25% dell'onere dell'irpef totale”.

In sostanza a convenire sotto il profilo fiscale in Italia sono le rendite finanziarie e immobiliari e i redditi da capitale, posseduti dalle fasce più ricche della popolazione. A non convenire è invece il lavoro dipendente e l’avvio di attività produttive. Con il paradosso che il nostro sistema fiscale per il quintile più ricco della popolazione risulti addirittura regressivo come dimostra uno studio. Ciò avviene perché meno si hanno capitali, più si è soggetti ad imposte indirette come l’Iva sui consumi, che non sono minimamente progressive e colpiscono tutti indifferenziatamente. In proporzione al reddito inoltre, i lavoratori versano molti più contributi sociali rispetto a chi vive prevalentemente di rendita. In più c’è la netta evidenza che i redditi da capitale, posseduti dai più ricchi, rendono molto di più di quelli da lavoro, posseduti dalla classe media e medio-bassa.

Sono queste dinamiche, forse più che la riduzione dei tanti scaglioni Irpef, a incidere sulla progressività secondo il professor Alessandro Santoro: “La riduzione degli scaglioni e, in particolare, la riduzione dell'aliquota marginale legale più elevata, hanno contribuito alla riduzione di progressività e altrettanto certamente questa è una tendenza che riguarda molti paesi occidentali, non solo l'Italia. Però a mio avviso la progressività reale del sistema fiscale è molto diminuita soprattutto a causa dell'erosione della base imponibile che è dovuta alla fuoriuscita dei redditi da capitale dall’'Irpef. E sappiamo benissimo che quest’ultimi sono maggiormente diffusi tra gli individui a reddito più elevato”.

Si assiste così al paradosso di una progressività che si inverte per i più ricchi, fino a diventare regressiva: “Il sistema fiscale in senso lato, comprensivo delle imposte e anche dei contributi sociali, in Italia è solo lievemente progressivo fino all'ultimo ventile di reddito. Per gli individui dell'ultimo ventile, cioé il 5% con redditi più elevati, il sistema non solo non è progressivo, ma è addirittura regressivo, perché l'aliquota media cala all'aumentare del reddito. Ciò dipende principalmente dal fatto che una quota rilevante dei redditi elevati proviene dai redditi da capitale, che sono tassati ad aliquote fisse e spesso inferiori rispetto a quelle applicate al reddito da lavoro. Anche Iva e contributi sociali, che sono proporzionali e non progressivi, contribuiscono a spiegare l'andamento osservato”.

L’imposta sul valore aggiunto viene varata nel 1973, un anno prima dell’Irpef: da allora è aumentata significativamente, come si intuisce dal grafico sotto, ed è in assoluto lla tassa più evasa del nostro sistema fiscale.

Malgrado esistano delle esenzioni significative (è fissata al 4% per i beni alimentari di prima necessità e i beni agricoli, al 10% per i beni e prodotti turistici e le opere edili) è una tassa indiretta e proporzionale che diventa spesso regressiva se guardiamo alla propensione al consumo delle classi sociali. Sono infatti i ceti più bassi a impegnare quasi tutto il reddito in prodotti di consumo, cosa che non succede all’aumentare della ricchezza.

Il prezzo dell’evasione fiscale e della mobilità dei capitali

C’è poi il problema enorme, che meriterebbe di un capitolo a parte della mobilità estrema dei capitali delle multinazionali, ma anche dei singoli individui, un meccanismo che spinge l’imposizione complessiva verso il basso, come ricordato dal Professor Santoro: “ L'alta mobilità dei capitali finanziari spinge verso la concorrenza fiscale e verso la riduzione delle aliquote sui redditi da capitale. Secondo il progetto Missing Profits, l'Italia ha perso a causa della pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali circa 7 miliardi di euro di gettito potenziale. Va verificato quanto sarà possibile recuperare grazie all'applicazione, a partire dal 2024, della nuova direttiva europea sulla tassazione minima delle multinazionali con fatturato pari ad almeno 750 milioni di euro”.

E c’è poi il problema sempreverde dell’evasione fiscale che nel nostro Paese fa segnare la bellezza di 100 miliardi di euro ogni anno, soldi sottratti a tutti, lavoratori e attività produttive: “Bisogna ulteriormente incrementare gli strumenti a disposizione dell'amministrazione finanziaria per il contrasto dell'evasione fiscale. Il tax gap, che è la migliore misura di cui disponiamo per l'evasione fiscale ed è anche quella rilevante ai fini del PNRR nonché ai fini del finanziamento del fondo per la riduzione della pressione fiscale, si è ridotto di quasi 4 punti percentuali e di quasi 16 miliardi in valore assoluto tra il 2015 e il 2020 secondo i dati pubblicati dalla Commissione sull'evasione fiscale del MEF. Studi econometrici hanno dimostrato l'efficacia di alcuni provvedimenti varati negli anni scorsi, tra cui lo split payment, la fatturazione elettronica e la sostituzione degli studi di settore con gli Isa - sottolinea Alessandro Santoro che aggiunge - Ulteriori recuperi di evasione possono essere ottenuti consentendo all'amministrazione finanziaria di incrociare in modo massivo e anonimo tutte le banche dati, non solo quella dei conti correnti (per la quale questa possibilità è stata sbloccata a giugno del 2022 dopo due anni dalla sua teorica adozione). Con il gettito proveniente dal recupero dell'evasione fiscale, e con il riassorbimento dei troppi regimi agevolativi oggi presenti, si dovrebbero ridurre significativamente le aliquote effettive sul lavoro, e sul capitale produttivo”.

Un sfida difficile, ma forse vitale. I primi a contemplare, almeno idealmente, il concetto di "progressività fiscale" furono del resto i rivoluzionari francesi che lo nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 scrissero esplicitamente: "Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese di amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini, ragione delle loro sostanze".  Anni dopo quel principio sarebbe diventato progressivo in gran parte dell'Occidente. A distanza di più di 230 anni le tasse non saranno forse "una cosa bellissima" come le descrisse un ministro dell'Economia italiano, ma rappresentano ancora un elemento essenziale per il corretto funzionamento delle nostre democrazie. 

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