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Martedì, 30 Aprile 2024
finanza sostenibile

Come l'aumento dei tassi d’interesse sta aiutando i petrolieri

Nonostante gli impegni presi dai governi a Dubai sulle rinnovabili, il costo dei progetti green sta diventando insostenibile a causa delle misure contro l'inflazione delle banche centrali

Non solo la Cop28 è ospitata da un petroliere che nega la scienza climatica. Ad allontanare ancora di più gli obiettivi di Parigi ci si metteranno pure i rialzi dei tassi di interesse, decisi dalle banche centrali di mezzo mondo per far fronte al galoppare dell’inflazione. Questo perché il rapido aumento del costo del denaro sta rendendo più difficili gli investimenti green in tutto il mondo. E ne risentono soprattutto i Paesi in via di sviluppo, che saranno presto responsabili di buona parte dell’inquinamento globale.

Mentre a Dubai i negoziatori dei vari Stati cercano di centrare il target che imporrebbe di contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1,5 gradi, l’ennesimo bastone tra le ruote arriva dai rialzi dei tassi d’interesse, mai così sostenuti come negli ultimi mesi. Come riporta Politico, i progetti climatici in tutto il mondo stanno naufragando a causa degli alti costi di finanziamento, mettendo a repentaglio gli obiettivi di decarbonizzazione dell’economia globale. E le lobby del fossile ringraziano.

Le politiche monetarie restrittive adottate da numerosi istituti centrali (Federal Reserve e Bce in testa) in risposta all’impennata dell’inflazione hanno prodotto un aumento del costo del denaro, con il risultato che ora scarseggiano gli investitori disposti a impegnarsi nella transizione green, dove i progetti sono tipicamente ad alta intensità di capitale e prevedono lunghi periodi di rientro degli investimenti. Così, ad esempio, sono stati annullati i piani per costruire nuovi impianti eolici offshore in varie parti del mondo, come al largo del New Jersey o nel Mare del Nord.

Uno dei temi centrali dei prossimi anni sarà dunque quello dell’equilibrio tra sostenibilità ambientale e sostenibilità finanziaria, con la bilancia che al momento pende decisamente a sfavore della prima. Ma se questo discorso vale per tutti, colpisce in particolar modo le economie emergenti, che vedono evaporare i capitali esteri necessari a finanziare il graduale abbandono delle fonti fossili. Proprio nel momento in cui servirebbero di più, dato che, stando alle proiezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), saranno proprio questi Paesi a fare la parte del leone in termini di emissioni inquinanti nel prossimo futuro. In naftalina, tra gli altri, diversi progetti per decarbonizzare la produzione energetica in Sudafrica e Indonesia. Il ritmo di investimenti verdi è rallentato vistosamente anche in Medio Oriente, e allo stesso modo si stanno facendo più rari i progetti di parchi eolici onshore nel continente asiatico. La transizione ecologica dovrà aspettare anche nel “primo mondo”, dato che il passaggio all’idrogeno è economicamente insostenibile ai livelli attuali dei tassi.

In questo modo, l’obiettivo di triplicare l’energia rinnovabile prodotta a livello globale entro il 2050, sottoscritto nei giorni scorsi proprio a Dubai, si allontana sempre di più. E suonano particolarmente puntuali le parole di Sultan Al Jaber, ministro emiratino dell'Industria e inviato speciale del suo governo per la lotta al cambiamento climatico, nonché presidente della Cop28 e amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale Adnoc, secondo il quale non c’è alcuna prova scientifica che l’abbandono delle fonti fossili sia necessario per limitare il riscaldamento globale e anzi riporterebbe il mondo all’età delle caverne. A giugno 2023, del resto, i combustibili fossili coprivano ancora l’80% del fabbisogno energetico mondiale.

Come nota Avinash Persaud, inviato di Barbados alla conferenza Onu per il clima, queste dinamiche provocano un effetto domino che si ripercuote sull’intera economia mondiale ma che danneggia soprattutto le economie più deboli, che erano già svantaggiate da condizioni di prestito più stringenti a causa della loro instabilità politica ed economica. Mia Mottley, prima ministra dell’isola caraibica, si sta spendendo per una riforma strutturale della finanza internazionale, per far sì che gli Stati emergenti vengano aiutati da quelli più ricchi nel contrasto al cambiamento climatico. La cosiddetta “agenda di Bridgetown” (dal nome della capitale barbadiana) prevedeva, in buona sostanza, che si prestassero più capitali a costo più basso ai Paesi in via di sviluppo per sostenerli negli interventi di mitigazione e adattamento.

Questo era anche il senso del fondo per la riparazione delle perdite e i danni annunciato in pompa magna all’avvio della COP28 lo scorso 30 novembre, una sorta di indennizzo per i danni che queste nazioni hanno subito a causa del cambiamento climatico senza essere tuttavia responsabili dell’inquinamento che l’ha prodotto (e a cui l’Italia ha promesso un contributo di 100 milioni di euro). Ma tutta questa impalcatura sta scricchiolando sotto il peso dei tassi d’interesse. E gli esiti sono già visibili: “Abbiamo assistito a un arretramento dei flussi di capitale internazionali, rendendo ancora più difficile la trasformazione verde nei Paesi in via di sviluppo”, ha dichiarato Persaud.

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