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Lunedì, 29 Aprile 2024

Il commento

Giulio Zoppello

Giornalista

I 15 anni di Iron Man, il cinecomic che ha cambiato tutto

Sì, esatto sono passati 15 anni, non è il massimo pensarci per molti di noi, ma è un dato di fatto che Iron Man di Jon Fevrau sia uno di quei film a cui non si può negare di rappresentare un momento cardine dell’industria cinematografica. Quel primo maggio 2008 il genere cinecomic fece il primo passo verso quel dominio dello storytelling moderno che perdura ancora oggi, a dispetto del calo qualitativo, della crisi della Marvel stessa. Non è un caso che in molti invochino il ritorno di lui, di Robert Downey Jr., nei panni del miliardario, playboy, filantropo e supereroe, perché di personaggi così oggi, non ce ne sono più.

Una scommessa in cui nessuno credeva

La nascita di un supereroe è sempre un momento delicato ma cinematograficamente fondamentale, porta con sé una quantità di possibilità e di responsabilità da cui poi dipende l’eventuale proseguo e la qualità complessiva della saga o universo cinematografico. Jon Favreau, attore, regista, produttore tra i più diversi dalla norma della sua generazione, con Iron Man riuscì dove altri avevano fallito, dove solo nomi come Sam Raimi, Richard Donner, Tim Burton e Bryan Singer avevano avuto successo: fidelizzare fin da subito il pubblico verso un personaggio che, stando ai produttori, non aveva alcuna possibilità.
“Siamo stati lasciati soli” - ricorda ancora oggi Robert Downey Jr. -. Nessuno pensava che il film potesse piacere al pubblico, sapevo che erano pronti a cancellare tutto alla minima occasione, ma questo ci donò un’incredibile libertà”. Jeff Bridges, che vestì i panni del villain, fu anche più lapidario nel dire che stavano “facendo un film indipendente da 200 milioni di dollari”. Ma tale mancanza di fiducia non era cecità o pregiudizio, era semplicemente l’incapacità di capire che la Generazione Z, così come i Millennial, formavano un pubblico diverso, in cerca di un’identità cinematografica in grado di rappresentare il loro mondo, in perenne mutamento. Ciò significava slegarsi dai personaggi del passato, avere qualcosa di più dei soliti Batman, Superman e anche Spiderman. Iron Man, la promessa di un cinema in cui personaggi Marvel ancora inesplorati e non solo gli X-Men, sarebbero stati protagonisti, quando si materializzò nella loro mente, ebbe un impatto incredibile. Il che spiega, almeno in parte, i 600 milioni di incasso, l’entusiasmo incontrollabile. Da lì sarebbe nato il MCU, con tutti i pro e contro del caso.

Un eroe diverso da tutti gli altri

Iron Man era il racconto di una genesi, che interessava un personaggio però molto diverso dagli eroi visti fino a quel momento. Tony Stark non era un povero ragazzo emarginato come Peter Parker, non era un alieno in incognito come Superman, non era neppure un miliardario asociale e dannato come Bruce Wayne. Era un mercante d’armi, un simbolo yuppie, una celebrità che (udite udite) adorava il sesso occasionale, il lusso, crogiolarsi nella sua fama e nello stile di vita da edonista dannunziano che Favreau gli cucì sapientemente addosso. Produce armamenti pesanti per l’America impegnata in Medio Oriente, viene rapito, in realtà su indicazione del socio e “amico” di famiglia Obadiah Stane (Jeff Bridges). 
In quella caverna, connettendosi al mito di Platone, Stark abbraccia la terribile verità: lui è complice dei massacri, non aiuta la pace o la stabilità, ma incrementa i profitti per sé stesso, destabilizza paesi, causa sofferenza e nulla più. Il suo percorso dell’eroe si unisce ad un’armatura, ad un reattore arc sul petto creato prima per sopravvivere, poi motore di un cambiamento totale. Il film, sceneggiato da una squadra formata da Mark Fergus, Hawk Ostby, Art Marcum e Matt Holloway, riuscì a rendere palpabile la sua evoluzione, connettendo il tutto in modo perfetto alla creazione: quella dell’armatura, come metafora della nascita di una nuova persona. In lui abbiamo Tesla, Da Vinci, Sabin, abbiamo i geni della Nasa, all’epoca si pensò anche di appaiarlo a Elon Musk, quando ancora si credeva fosse un genio e non un furbo. Però funzionava, eccome se funzionava, perché Tony non era muscoli, era cervello, era genio, era creatività, era artista e innovatore, eravamo noi che giocavamo coi Lego. 

Il simbolo dell’America che cambiava

Iron Man aveva una grande capacità di rendere il personaggio principale accattivante. Tony era un viveur ma era anche complesso, tormentato, un orfano che cercava e assieme negava la propria compagnia agli altri. Robert Downey Jr. lo rese sgargiante, un dandy palesemente incapace di rinunciare al proprio narcisismo, ma conscio di avere delle problematiche relazionali ed emotive non da nulla. 
Questa contrapposizione funzionava molto, ma fu soprattutto lo faceva la visione politica, il puntare il dito contro l’americanocentrismo di ritorno post 11 settembre, che diede ad Iron Man un qualcosa in più rispetto al cinecomic classico, genere che ha rinnovato profondamente. L’America dopo anni di guerra si era resa conto di aver sbagliato qualcosa, l’era di Barack Obama, così ricolma di speranze per un ritorno alla Terza Via, per il superamento di fragilità croniche, era lì all’orizzonte. Assieme, c’era un paese assediato da una crisi economica che proprio quell’anno si materializzò in modo terrificante, distruggendo un’intera generazione, minando certezze, costringendo tutti a reinventarsi. Tony Stark doveva fare lo stesso, si contrapponeva al vecchio capitalismo d’assalto, alla vecchia America egoista e sanguinaria di Stane, a cui Bridges donò una malvagità incredibilmente realistica. Iron Mansarebbe stato solo l’inizio del trionfo di un personaggio che però ha anche segnato la fine del concetto di star cinematografica, reso gli attori meri appendici delle icone che interpretano. Ha avuto quindi anche conseguenze negative, ma rimane un blockbuster che per innovazione e coerenza ha fatto la storia. Peccato che in 15 anni, la Marvel si sia scordata come si fa.

 


 

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