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Sabato, 27 Aprile 2024
L'intervista a Today

Francesca Mazzoleni, regista di Supersex: "Oltre al porno, nella serie c'è molto di più"

La regista degli episodi due e cinque della serie di Netflix si racconta in un’intervista ampia, in cui ripercorre la sua carriera e condivide la sua speranza sul futuro del cinema e della tv italiani

Francesca Mazzoleni ha un certo modo di vedere le cose e il cinema. Non le piace fermarsi alla superficie, vuole sempre andare in profondità: oltre i pregiudizi, i luoghi comuni e i qualunquismi. Sceglie i progetti su cui lavorare proprio per questo, per potersi mettere alla prova e – in qualche modo – superarsi. L’ha fatto con la sua opera prima, Succede, tratta dall’omonimo romanzo di Sofia Viscardi; l’ha fatto con Puntasacra, uno dei documentari italiani più belli e sinceri degli ultimi anni. L’ha fatto con Romulus, dove si è confrontata con il protolatino e una ricostruzione storica attenta e stratificata, e l’ha fatto ora con Supersex, la serie di Netflix creata da Francesca Manieri su Rocco Siffredi.

Sperimentare senza perdersi, dice Mazzoleni, è fondamentale per lei. Proprio com’è fondamentale mettersi nei panni dell’altro, dell’attore o dell’attrice, partecipare alla scena non solo attraverso la macchina ma con la propria visione, e cercare di rispondere a quelle piccole domande – apparentemente fuggevoli, e in realtà sostanziali – che finiamo per porci. Serve più fiducia, spiega, per gli autori e le loro intuizioni. E ci vuole decisamente più consapevolezza nei confronti del pubblico, che spesso è molto più pronto ad ascoltare di chi realizza film e serie tv.

Al di là dell’aspetto più fisico e muscolare, Supersex è costruita sui dialoghi. Penso a quello particolarmente intenso dell’episodio sei, dove femminile e maschile vengono messi a confronto. Quanto è stato difficile trovare un equilibrio tra queste due dimensioni?

"Le grandi scene di confronto di questa serie sono spesso tra il personaggio di Lucia, interpretata da Jasmine Trinca, e quello di Rocco, interpretato da Alessandro Borghi. Ci sono dei momenti precisi, all’interno del racconto, in cui si incontrano e si parlano. E quella che citi tu è una delle mie scene preferite. Poi ce n’è un’altra, nell’episodio cinque che ho diretto, dove Lucia e Rocco sono in un bar. È uno degli addii più dolenti e romantici tra due persone che si sono amate e che non si sono mai avute".

Che scene sono?

"Sono scene in cui tutto – il frastuono, il porno, la vita di ogni giorno, il desiderio – si ferma e due personaggi parlano per cinque, sei minuti. E lo fanno in una serie di Netflix, in streaming. Quindi è vero: una delle cose più difficile è stata proprio riuscire a trovare un equilibrio tra le necessità stesse della serie e dei momenti simili, in cui i personaggi cercano di capirci qualcosa della vita – soprattutto Rocco".

Questi confronti, tra l’altro, avvengono quasi sempre con personaggi femminili.

"E Supersex si fonda esattamente su questo. Il dialogo dell’episodio sei che hai citato tu viene dopo una delle scene più forti e controverse della serie, e Lucia, che conosce da sempre Siffredi, ha assistito in silenzio. Durante il loro confronto, dice alcune frasi bellissime secondo me. Innanzitutto fa notare a Siffredi che per lui è sempre stata una figura idealizzata: la ragazza della sua infanzia, quella che rimarrà sempre identica a sé stessa. E così facendo ribadisce la superficialità con cui gli uomini spesso considerano le donne. E poi Lucia fa un discorso meraviglioso sul consenso, che rischia di essere ideologico ma non lo è".

Perché?

"Perché parla di loro due, perché non si perde nel vago o nel generale. Resta ancorato alla realtà del racconto. Tu sei sicuro, chiede Lucia, che per tutto il tempo, fino alla fine, fino a un istante prima, dall’altra parte c’è totale consenso? Io so che cos’è il sesso, ribadisce Lucia, e lo so meglio di te. Quindi da una parte resiste una complessità evidente dei temi, che sottolinea l’importanza del contatto e del consenso all’interno del porno. Dall’altra, c’è la prospettiva di una donna che dice di aver visto e vissuto il sesso peggiore con la prostituzione. Il grande valore di questa scena sta nell’invito che viene fatto allo spettatore di riflettere sulle differenze tra tutti i tipi di sessualità".

Per esempio?

"Quando era giovane, a Ortona, Lucia è stata segnata dallo sguardo degli altri. Parliamo del giudizio dell’Italia degli anni ‘70, che esiste tuttora negli occhi di molti, per cui una donna dalla sessualità libera è una puttana mentre un uomo che fa il pornoattore può diventare un mito. Lucia è rimasta ingabbiata nell’immagine che gli altri le hanno cucito addosso e ha finito per prostituirsi per amore in un quartiere come Pigalle, che è un mondo fatto di sopraffazione”.

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Quale credi che sia la difficoltà nel trattare determinati argomenti? Sia nel cinema che nella serialità.

"Secondo me, una delle grandi difficoltà è che stiamo vivendo in un periodo in cui è tutto o bianco o nero. C’è un bipolarismo netto in qualunque giudizio, ed è una cosa che mi spaventa molto. Forse, una cosa che il cinema e la serialità dovrebbero fare è mettere in crisi il nostro sistema di valori. O meglio, scusami: dovrebbero invitare ad aprirsi a sistemi di valori differenti dal proprio. Che non vuol dire, ecco, cambiare; vuol dire provare a comprendere". 

E si fa fatica?

"Molta fatica. Perché abbiamo paura di perdere quelle poche certezze che abbiamo e a cui ci affidiamo ogni giorno. Davanti a una serie come Supersex, che prova a ribaltare il punto di vista sul porno, la prima reazione è quella di ritrarsi. Ma non è solo questo".

Cos’altro?

"Supersex ci dice una verità difficilissima da accettare, e cioè che possiamo rivederci nell’altro, anche in chi ci sembra lontanissimo da noi, in chi abbiamo sempre criticato e giudicato male. E a noi è successo. È successo agli attori, è successo a noi registi mentre leggevamo le sceneggiature; è successo anche ad alcuni spettatori. Io odio quando il giudizio su qualcosa, che sia un film o una serie, viene limitato a una sola domanda: ma lo stai osannando o lo stai distruggendo? Se questo è il sistema che vogliamo utilizzare per parlare di un’opera, abbiamo fallito". 

Il punto, allora, qual è?

"Il punto è mostrare qualcosa nella sua interezza, nella sua complessità, senza indicare una direzione da seguire. Sta poi allo spettatore, a chi guarda, decidere dove posizionarsi". 

Come regista, quanto credi che sia difficile mantenere il controllo in una serie come Supersex, dove il registro del racconto cambia in continuazione e agli attori viene chiesta ancora più fiducia del solito?

"Se non fossimo riusciti a costruire questo legame, sarebbe stato un disastro. Perché è stato fondamentale, fin dal primo istante, potersi fidare gli uni degli altri: noi, i registi, e loro, gli attori. Chi va in scena deve mettersi due volte a nudo: sia fisicamente che psicologicamente. Io, all’inizio, ero terrorizzata dall’idea di non riuscire a far sentire tutti a proprio agio". 

Credi di esserci riuscita alla fine?

"Credo di sì. Abbiamo parlato talmente tanto di ogni scena che alla fine si è creato un clima che vorrei trovare sempre nella vita, un clima in cui l’intimità era soprattutto nei dialoghi e nei confronti. Ci siamo detti tutto. E dicendoci tutto, è stata raggiunta una sintonia unica. Per evitare di scadere nella volgarità, abbiamo analizzato ogni cosa nel minimo dettaglio. Tutti si sono sentiti liberi di esprimere i propri dubbi e le proprie perplessità. Il sostengo dell’intimacy coordinator è stato fondamentale, non mi stancherò mai di ripeterlo. Ma è stata altrettanto fondamentale quest’atmosfera di condivisione totale che siamo stati in grado di creare. Io, poi, tendo a fidarmi al massimo degli attori, di ciò che succede dentro di loro; serve seguire la loro istintività, a volte". 

Qual è la differenza tra sensualità e pornografia?

"Penso che ci possa essere sensualità in un certo tipo di pornografia. La sensualità, però, è spesso al di fuori del sesso. È questa la cosa bella. La sensualità non è per forza nell’atto. In Supersex, è stato bello provare a mettere in scena questo tipo di sentimento. Ci sono tanti momenti, nella vita dei personaggi, in cui c’è sensualità e non c’è porno. Il desiderio, dice a un certo punto il protagonista, stava anche negli occhi di sua madre". 

Secondo te, nel cinema italiano contemporaneo c’è un problema con la sensualità? Si sente la mancanza di questo elemento?

"Assolutamente sì, e c’è un problema anche con il racconto del desiderio. Quel desiderio non addomesticato, attenzione. Il desiderio dinamite, come viene chiamato in Supersex. Il sesso appartiene a qualsiasi essere umano, ed è incredibile che proprio questo elemento faccia paura. Credo che sia importante poter affrontare un discorso serio sulla pornografia. Non per, diciamo così, sdoganarla. Ma per poterne parlare in maniera aperta".

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Lavorare a una serie, quindi insieme ad altri registi, rappresenta una sfida per la propria identità?

"Una cosa che mi piace molto e che mi arricchisce tanto, e che fa parte della visione che ho del mio lavoro, è potermi mettere in territori estremamente scomodi. Se avessi fatto una serie facile, mi sarei sentita persa. Voglio lavorare a progetti capaci di mettermi alla prova. È stato così con Romulus, perché non capita tutti i giorni di lavorare a una serie in costume recitata interamente in protolatino. Ed è stato così anche con Supersex, che è una serie piena di temi e di riflessioni. E di questo devo ringraziare Matteo Rovere, che mi ha sempre coinvolta in progetti sfidanti, e Francesca Manieri, perché ha scritto un testo meraviglioso. Io non mi sento persa, no. Il mio filo rosso è la sperimentazione, ma sono contenta se le cose che faccio vengono viste”.

Qual è la tua necessità, adesso, come regista?

"Quella di non annoiarmi. Ora sento il bisogno di tornare a fare qualcosa di totalmente mio. Ho rimesso mano a vecchi progetti che avevo conservato nei cassetti, e li sto rivedendo. E poi voglio continuare a sperimentare con il documentario. Insomma, voglio provare ad alzare continuamente l’asticella, proprio per mettermi alla prova. Chi si ripete per me rischia di diventare una copia di sé stesso. Pur di cambiare, sono pronta a commettere errori. Mi piace affrontare grandi stereotipi per vederli sotto una luce diversa. Per esempio l’ho fatto in Puntasacra e anche qui, in Supersex".

Che cosa credi che manchi oggi al cinema preso nella sua totalità, sia come produzione che come pubblico?

"Sembra sempre che siamo prossimi a una rivoluzione, no? Che le cose stiano per cambiare profondamente. E invece non è così. Credo che abbiamo fatto questo stesso discorso quattro o cinque anni fa. Io continuo a sentire che sono poche le persone che sono davvero pronte a credere completamente in te. E intendiamoci: sono poche anche se hai dimostrato di essere affidabile e di avere una visione. C’è sempre paura, e c’è sempre questa maledetta voglia di seguire le mode, un flusso prestabilito e facile da intercettare”.

E che cosa succede facendo così?

"Si rischia di arrivare in ritardo".

È una cosa che succede spesso?

"Il cinema è molto lento di per sé, per i tempi produttivi e per le necessità strutturali che ha; se cerchiamo anche di inseguire l’attualità non riusciremo mai a rimanere al passo. Penso che la grande visionarietà dipenda direttamente dalla fiducia, e secondo me è fondamentale essere pronti a provare, al di là dei risultati. Credo di averti dato la stessa risposta la prima volta che mi hai fatto questa domanda". 

E il pubblico? È capace di accogliere questo cambiamento?

"Secondo me, il pubblico è più pronto di chi, poi, dà vita alle cose. Va aiutato, questo sì, anche perché c’è una grande confusione: dalla fruizione dei prodotti al modo in cui è possibile trovarli e recuperarli. Il pubblico non va minimamente sottovalutato".

Come si mette in scena il piacere?

"Ci sono stati tanti momenti, e vado nello specifico, nell’episodio cinque di Supersex, quello ambientato sull’isola, in cui ho sentito che ciò che stavamo girando aveva un altissimo tasso di erotismo e di messa in scena del piacere. Di questo devo ringraziare Alessandro Borghi e Linda Caridi per la loro generosità. Io penso che la camera possa fare fino a un certo punto: sì, puoi indugiare su un gesto, un’espressione o su un dettaglio; a me piace moltissimo, per esempio, capire quali sfumature ci sono in un determinato momento. Alla fine, però, ciò che fa la differenza è l’energia che si crea sul set. C’è il lavoro con gli attori, certo, ma c’è pure la troupe che si trova nella stanza. Bisogna esserci e non esserci nello stesso istante. La non volgarità dipende direttamente da questo: se riesci o meno a raccontare l’incontro tra questi due corpi e queste due persone”.

E che cosa si cela, poi, nell’incontro tra due persone?

"Ciò che provano l’una per l’altra, come si sentono, cosa desiderano. A me piace soffermarmi proprio su queste piccole domande, che apparentemente sembrano avere un impatto minimo e che in realtà rappresentano la sostanza stessa delle relazioni e delle dinamiche di piacere. Le scene di sesso, al cinema, sono molto performative; e invece è importante cercare una narrazione al loro interno". 

Che differenza c’è, se c’è una differenza, tra il modo in cui hai raccontato l’intimità in Succede, il tuo primo film, e il modo in cui l’hai fatto in Supersex?

"Da un certo punto di vista, ho trovato molti elementi in comune. Sono due titoli lontanissimi tra di loro, lo so, ma anche in Succede ho provato a capire quello che i protagonisti, questi due giovanissimi ragazzi, stavano provando. Quella è stata la prima scena di sesso che ho girato nella mia vita, e ho cercato per tutto il tempo di preservare la verità del racconto – dei personaggi e degli attori così giovani. In Supersex, è successa una cosa simile. Anche qui, infatti, ho dovuto mettere in scena una prima volta, ma stavolta è andata diversamente: viene perso il controllo, e c’è uno squilibrio evidente".

Che cosa hanno in comune il sesso e il cinema?

"Ti rispondo con una delle frasi più belle che Francesca Manieri ha scritto per Supersex: ogni potere è cannibale".

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