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Sabato, 27 Aprile 2024

Alessandro Rovellini

Direttore responsabile

Sono così mitomani che ci aiutano a essere migliori

La novità editoriale più interessante degli ultimi tempi non è un libro. Grazie al cielo. Da oltre un mesetto, infatti, sugli schermi dei nostri smartphone è tornata "Io professione mitomane war edition". Per chi non la conoscesse, Ipm è stata una delle più feroci pagine satiriche sulla corazza di protagonismo dei giornalisti e dei comunicatori nella storia italiana dei social. Feroce perché faceva una cosa semplicissima: screenshottava gli status dei giornalisti stessi. Senza cambiare una virgola. Vedere frasi fuori dal contesto, estrapolate dall'abbraccio caldo di comunità di adulatori, creava un effetto tra il tragicomico e l'esilarante. Quella pagina ha chiuso i battenti da sola. Da un gioco ironico, dove gli stessi cronisti commentavano per schernirsi, è diventato un fiume di frustrazione e cattiveria. Almeno secondo gli autori. "Ironia e autoironia sono merce rara, ma anche quando qualcuno mostrava di averla avuta si scatenava comunque una canea. In pratica era impossibile uscirne con onore. E non ci sentivamo più di portare avanti questa responsabilità", hanno scritto i proprietari per giustificare il commiato. 

A me era sinceramente dispiaciuto. Tranne poche cantonate di cronisti in buona fede e non mostri egoriferiti, Ipm in fondo metteva alla berlina atteggiamenti senza giustificazioni. Il ricordare a 39mila persone 10 volte che il proprio libro è andato in ristampa non aggiunge qualcosa a quel libro; oppure il parlarsi addosso con manierismi compiaciuti non è bella scrittura, ma tempo perso. È solo grancassa gratuita di sé stessi. E se lo facciamo notare con garbo nei commenti che male c'è a sdoganare quello che tutti, sotto sotto, pensano? 

I social hanno lo stesso grosso difetto che diventa grosso pregio: sono specchi. Deformanti, sporchi, un po' ossidati. Ma specchi. Pubblici, poi. In piazza aperta. Se nei manuali impolverati delle scuole di giornalismo l'unica cosa che conta è la notizia, non il giornalista che la dà, la realtà di Facebook o Twitter soverchia il vecchio rapporto. Questo l'ho sempre trovato aberrante soprattutto in un caso specifico: il modello del 'è morto tizio, ma parliamo un po' di me'. Ci sono esempi clamorosi, ridicoli, blasfemi, macchiettistici. L'altro immenso serbatoio è Linkedin. Il giornalino dell'oratorio diventa il Nyt, il primo posto su un partecipante al premio si tramuta nel Pulitzer. 

Ma alla fine l'occasione della guerra si è rivelata troppo ghiotta. Ipm è tornata. Si spostano in un angolino i virologi e i virologi da cinguettio - si spostano eh, quest'autunno torneranno - ed ecco gli esperti geopolitici. Che spesso non danno chiavi di lettura o opinioni, ma ci tengono a far sapere quanto siano più bravi, preparati e intelligenti degli altri. Il contenuto non è più nemmeno la forma, ma il veicolo. Il messaggio lascia strada a chi porta il messaggio stesso. In un cortocircuito che gli storici del comportamento, tra mille anni, studieranno stupiti, così vengono alimentati i talk show: viene invitato chi blatera a voce più alta. E non si può ignorare il fenomeno tacciandolo da invidia sociale. Ipm è, forse, il più profondo sprone che un giornalista possa avere: valere per quello che scrive o racconta. Per molti, oggi, è solo accessorio sepolto dall'appagamento del proprio ego.

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