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Domenica, 28 Aprile 2024
Oro blu

Il tesoro nascosto di Gaza che renderebbe ricchi i palestinesi. E nessuno sfrutta

C'è un giacimento di gas al largo della Striscia che potrebbe emancipare la Palestina da Israele e dagli aiuti internazionali. Fu scoperto oltre 20 anni fa ma i lavori non sono mai partiti. Tra l'ostruzionismo di Tel Aviv e i rischi legati ad Hamas

C'è un tesoro a largo di Gaza che potrebbe portare elettricità e ricchezza nella Striscia e nel resto della Palestina, emancipando il Paese dagli aiuti umanitari internazionali. Si chiama Gaza Marine e si trova a circa 36 chilometri dalla costa palestinese, a 610 metri di profondità. Secondo le stime, conterrebbe 1.000 miliardi di metri cubi di gas e garantirebbe entrate per 4,5 miliardi di dollari, una fonte stabile di approvvigionamento energetico per case, impianti di desalinizzazione dell'acqua e per lo sviluppo dell'agricoltura. Peccato però che questo tesoro, scoperto quasi un quarto di secolo fa, non sia stato mai sfruttato per l'opposizione di Tel Aviv. E che il nuovo conflitto scoppiato nella Striscia sia arrivato proprio quando Israele e Autorità palestinese, con l'intermediazione dell'Egitto, sembravano aver trovato un'intesa per avviare i lavori sul giacimento. 

Arafat e il "dono di Dio" 

Era il settembre del 2000 quando l'allora leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat, apparve in tv per annunciare la scoperta del gas naturale al largo delle coste di Gaza. Un anno prima, Arafat aveva siglato un contratto con la società britannica British Gas per condurre delle ricerche nelle acque assegnate alla Palestina con gli Accordi di Oslo II del 1995. Per il leader dell'Olp la scoperta era pari a "un dono di Dio" al popolo palestinese per le generazioni a venire. "Ciò fornirà una solida base per la nostra economia, per creare uno Stato indipendente con Gerusalemme santa come capitale", aveva dichiarato salendo sopra un peschereccio.

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L'arrivo di Hamas

L'entusiasmo durò poco: lo scoppio della seconda Intifada prima, e l'arrivo di Hamas poi hanno dato forza alle resistenze israeliane, che di fatto hanno bloccato qualsiasi progetto di sfruttamento del Gaza Marine. Tel Aviv vuole una fetta del gas estratto: per Israele, a corto di risorse proprie, è una questione anche di sicurezza nel suo approvvigionamento energetico. La presa di potere a Gaza da parte di Hamas nel 2007 peggio ancora di più il quadro. "Un punto di svolta è stata l’operazione militare israeliana a Gaza nel dicembre 2008 - ha scritto Mahmoud Elkhafif, coordinatore per la Palestina dell'Unctad, un'agenzia dell'Onu - In seguito all'operazione, i giacimenti di gas naturale palestinesi furono di fatto posti sotto il controllo israeliano senza riguardo per il diritto internazionale. La questione della sovranità sui giacimenti di gas di Gaza è cruciale. Da un punto di vista legale (...) le riserve di gas appartengono ai Territori palestinesi occupati".

Israele e la sete di gas

Ma un conto è avere un diritto sulla carta, un altro è avere la capacità di sviluppare un'opera complessa come quella necessaria a sfruttare un giacimento di gas. Servono per l'appunto le competenze di società come la British Gas, confluita poi nel gigante Shell. Ma i britannici, che a un certo punto hanno cominciato a trattare direttamente con Israele aggirando l'Autorità palestinese, non riescono a trovare un'intesa. Del resto, Tel Aviv adesso ha scoperto di essere più ricca di gas di quanto credesse: sempre in mare, trova due giganteschi giacimenti, il Tamar prima e il Leviathan poi, che gli permettono di risolvere l'eterna crisi energetica e di diventare persino un Paese esportatore. A Tel Aviv basteranno 4 anni per avviare il Tamar nel 2013, mentre nel 2019 entra in produzione anche il Leviathan. Tempi record, soprattutto se confrontati con quelli del Gaza Marine.

I costi dell'occupazione

Con la pancia piena di gas, c'è chi spera che sia giunto finalmente il momento di dare ai palestinesi la possibilità di avere una propria fonte di energia. Ma nel 2018, la Shell abbandona il progetto. Al suo posto, al fianco del fondo sovrano della Palestina, entra la Consolidated contractors company, società creata da un palestinese cristiano, Said Khoury. L'altra metà della torta dei diritti sul Gaza Marine resta al fondo sovrano della Palestina. Il cambio di proprietà, però, non sblocca lo stallo.

Nel 2019, l'Onu pubblica un rapporto dal titolo inequivocabile: "I costi economici dell'occupazione israeliana per il popolo palestinese: il potenziale non realizzato del petrolio e del gas". Secondo i calcoli delle Nazioni Unite, il giacimento vale 4,5 miliardi di dollari di entrate nell'arco di un ventennio. Una somma che consentirebbe a Cisgiordania e Gaza di emanciparsi non solo da Israele per produrre la propria energia elettrica (l'Autorità palestinese paga ogni anno a Tel Aviv una "bolletta" di circa 22 milioni di dollari), ma anche di ridurre, e non di poco, la dipendenza dagli aiuti internazionali alla sua economia e alla ricostruzione della Striscia.

Gli altri tesori negati

Ma i tesori "negati" alla Palestina, sempre secondo l'Onu, non finiscono qui: c'è il giacimento petrolifero di Meged, al confine tra Israele e Cisgiordania. Tel Aviv lo ha reso produttivo dal 2010, sostenendo l'esclusività dei diritti di sfruttamento. L'Autorità palestinese, invece, reclame che sebbene le trivelle siano in Israele, l'80% del giacimento sia in Cisgiordania, e pertanto dovrebbe ricevere una fetta degli introiti. Le Nazioni Unite sostengono che il giacimento valga 67 miliardi di dollari in mancati introiti per la Palestina, molto più del Gaza Marine. Sempre l'Onu ricorda che anche sui giacimenti di gas nel Mediterraneo (per la precisione nel bacino del Levante) non vi è certezza giuridica della competenza esclusiva di Israele, e che una parte dei ricavi derivanti da questi giacimenti dovrebbe andare anche ai palestinesi. Se sui diritti sul Meged e sulle riserve del Levante, gli esperti internazionali si dividono, il Gaza Marine resta inequivocabilmente un tesoro palestinese. 

La mediazione egiziana

Sul giacimento al largo della Striscia qualcosa comincia a muoversi nel 2019, quando l'Egitto decide di fare asse con Israele e l'Unione europea (in particolare con Italia, Grecia e Cipro) per mettere a sistema i giacimenti nel Mediterraneo orientale, "proteggerli" dalle mire della Turchia, e esportare il gas in eccesso in Europa. Nasce l'EastMed Forum, di cui fa parte anche l'Autorità palestinese. La mediazione del Cairo sembra portare Netanyahu a più miti consigli. Ma nel 2021, un nuovo scontro a Gaza tra forze israeliane e Hamas rimette in pausa il progetto del Gaza Marine. Il colpo di scena arriva questa estate: a giugno il governo di Tel Aviv annuncia che "nel quadro degli sforzi esistenti tra lo Stato di Israele, l'Egitto e l'Autorità palestinese, ponendo l'accento sullo sviluppo economico palestinese e sul mantenimento della stabilità della sicurezza nella regione, è stato deciso di sviluppare il giacimento di gas marino di Gaza". 

Guerra tra Israele e Hamas: la diretta

Sembra l'inizio di una nuova fase, un ramoscello di ulivo che Netanyahu mostra al mondo (e in particolare agli Usa) per rispondere alle critiche sulla sua politica di promozione degli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania. C'è chi spera che la prospettiva di un giacimento di gas funzionante a portata di mano possa convincere Hamas a deporre le armi. Ma i fatti recenti hanno cancellato queste speranze. 

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