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Sabato, 27 Aprile 2024
Quasi eterne

Perché le tartarughe vivono così a lungo

Il più vecchio animale terrestre vivente è Jonathan, una tartaruga gigante che ha appena compiuto 191 anni. Come riescono questi animali ad invecchiare così lentamente? La scienza non ha una risposta definitiva, ma ipotesi e indizi non mancano

Negli scorsi giorni uno dei più longevi animali della Terra ha spento le candeline del suo 191esimo compleanno. Parliamo di Jonathan, la tartaruga gigante delle Seychelles che attualmente vanta il titolo di più vecchio animale terrestre vivente sul pianeta. Un record ereditato con la morte di Tu’i Malila, una testuggine del Madagascar deceduta nel 1966 all’età di 189 anni. E ancora poca cosa di fronte a quello – per cui però manca una conferma ufficiale – di Adwaita, una tartaruga gigante deceduta nel 2005 nello zoo di Calcutta ad un’età stimata, basandosi su fonti aneddotiche, di 225 anni. Come fanno le tartarughe a raggiungere età così venerande? E perché proprio loro? Una risposta definitiva ancora non c’è, ma negli ultimi anni la scienza ha iniziato a portare alla luce diversi indizi interessanti. 

Geni e metabolismo

Una delle ipotesi più citate quando si parla della longevità delle tartarughe è la cosiddetta “teoria della velocità di vivere”, elaborata all’inizio dello scorso secolo dallo scienziato tedesco Max Rubner. In termini moderni, prevede che gli animali con un tasso metabolico più lento, solitamente di grandi dimensioni, vivano tendenzialmente più a lungo di quelli con un metabolismo più rapido, e di dimensioni ridotte. Osservando il mondo animale le previsioni della teoria sono abbastanza corrette, e a livello molecolare è stato tentato di spiegarla utilizzando la produzione di radicali liberi, prodotti dal metabolismo cellulare in organelli come i mitocondri: più il metabolismo è rapido, più radicali liberi vengono prodotti, danneggiando le nostre cellule e facendoci invecchiare rapidamente. 

In realtà non esistono prove che le cose stiano realmente così, e alcune ricerche degli ultimi anni sembrano aver smentito le previsioni della teoria, almeno per quanto riguarda alcune classi di animali, come i mammiferi. Ma nel caso delle tartarughe, che della lentezza del vivere hanno fatto uno stile di vita, si tratta senz’altro di una spiegazione intrigante. Studiando il loro Dna, negli ultimi anni sono stati individuati diversi geni che potrebbero contribuire alla longevità: geni che conferiscono elevate capacità di riparare i danni che si accumulano nel Dna, geni che controllano l’attività del sistema immunitario, geni che conferiscono un’elevata resistenza allo sviluppo di tumori. È probabile che l’insieme di tutti questi, e forse altri, fattori contribuisca all’incredibile longevità delle tartarughe. E un paio di ricerche pubblicate di recente aiutano anche a capire come mai l’evoluzione potrebbe aver selezionato proprio questi animali per vivere tanto più a lungo della media. 

Questione di guscio

Nel primo dei due studi, pubblicati entrambi su Science nel 2022, gli autori hanno indagato la longevità di 77 specie di rettili in ambiente naturale, analizzando quali caratteristiche di questi animali risultassero correlate con la durata della loro vita, e comparandole con quelle di animali a sangue caldo di taglia paragonabile. Una possibile spiegazione per la longevità dei rettili è infatti il loro organismo a sangue freddo, che non necessita di un’attività metabolica costante per riscaldare il corpo dall’interno (come facciamo invece noi mammiferi), e potrebbe quindi accumulare un minor logorio nel corso degli anni. I dati raccolti hanno però smentito questa ipotesi. Esistono infatti rettili che invecchiano anche più velocemente delle loro controparti a sangue caldo, mentre alcune specie, e in particolare tartarughe e testuggini, non mostrano praticamente alcun segno di senescenza: le probabilità che sopravvivano di anno in anno non diminuiscono in funzione dell’età. 

Guardando alle caratteristiche fenotipiche che accomunano i rettili che invecchiano più lentamente, i ricercatori ne hanno individuate due: la presenza di qualche strumento naturale di difesa, come gusci o veleni, e il mantenimento della capacità di riprodursi anche nelle fasi più avanzate della vita. Questo lascia immaginare che per questi animali, la selezione naturale abbia premiato il contributo riproduttivo crescente degli esemplari anziani, ben difesi all’interno delle loro armature ossee, premendo per la selezione di tratti genetici che allungano la durata delle loro vite e tengono lontani gli effetti deleteri del tempo, al contrario di quanto avvenuto per animali come i topi, in cui al contrario la selezione ha premiato la capacità di produrre un numero elevato di cuccioli nel minor tempo possibile, e una durata più breve della vita. 

I risultati sono confermati anche dal secondo studio apparso su Science, che ha studiato la longevità di rettili e anfibi non in natura, ma in un ambiente artificiale come gli zoo. I risultati hanno dimostrato che il 75% delle specie studiate di tartarughe e testuggini non mostrano pressoché alcun segno di senescenza quando vengono allevate in un ambiente protetto e artificiale come quello degli zoo. Pur invecchiando, quindi, il loro organismo è programmato per mostrare con estrema lentezza i segni del tempo, e per rimanere attivo e vitale anche nelle fasi più avanzate della loro vita. 

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