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Domenica, 28 Aprile 2024
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Sesso con il cappello, isolamento e pensieri suicidi: storie di bald shaming, il bullismo dei capelli

Fabrizio Labanti, inventore del patch cutaneo, racconta di una vera e propria ossessione che spesso può sfociare in stati depressivi e dismorfofobia

"Pelato", così come "ciccione", sono tra gli scherni più vecchi di sempre. Se però in merito all'accettazione del fisico - soprattutto per quanto riguarda il peso - è stata messa in campo una vera e propria battaglia di sensibilizzazione, che continua ad andare avanti nonostante negli ultimi anni qualche conquista sia finalmente arrivata, i capelli restano a prestare il fianco a battute, insulti e pregiudizi, provocando dolore, frustrazione, fino alla completa ossessione. Insomma, se una persona in sovrappeso può contare sulla sensibilità che si è diffusa a livello sociale - o almeno dovrebbe poterlo fare -, con la certezza che certe parole e derisioni vengano condannate, non si può dire lo stesso per donne e uomini con alopecia, calvizie o problemi di diradamento. 

Il bald shaming, o tricobullismo, è molto più subdolo perché si annida in convenzioni difficili da estirpare, come ad esempio il preconcetto dell'uomo che non deve essere schiavo dell'estetica e può permettersi quindi di perdere i capelli, di conseguenza di incassare senza batter ciglio le battute degli amici o dei colleghi. Motivo per cui il tricobullismo è quasi prettamente maschile. Anche per le donne è ovviamente un problema importante quello legato ai capelli, ma proprio perché socialmente "giustificate" - godendo di un diritto all'immagine più forte rispetto al sesso maschile - arrivano più facilmente a una soluzione senza il pensiero di doversi giustificare agli occhi degli altri. 

Ne abbiamo parlato con Fabrizio Labanti, hair designer e ideatore del patch cutaneo - in queste settimane in onda su Real Time, il sabato pomeriggio, nel programma "Gli angeli della bellezza" - che ci ha raccontato di un'ossessione a tutti gli effetti che si sviluppa più spesso di quanto si può immaginare, sfociando anche in stati depressivi e dismorfofobia. Labanti ha inventato il trapianto di capelli non chirurgico: il patch cutaneo, appunto, in grado di ricostruire il cuoio capelluto attraverso un calco tridimensionale alla testa del paziente. Viene costruito un avatar e su questo si iniettano capelli uguali ai suoi, ma non suoi. Una volta effettuato questo innesto sull'avatar, si rimuove il cerotto (il patch) che poi viene applicato alla pelle del cliente, dando vita all'infoltimento. Una soluzione - brevettata e riconosciuta come dispositivo medico - che permette di avere in circa 6 mesi una testa uguale a quella di prima, o come si preferisce. C'è poi un controllo da fare ogni mese e nell'arco di 8-12 mesi il patch andrà sostituito (dipende dall'uso). Tutto questo a un costo che va dai 2 mila ai 3 mila euro l'anno. La differenza con una normale parrucca è sostanziale: "Il patch ha un aspetto di sinestesia molto importante, torna a essere presente l'immagine della persona che c'era prima della problematica ai capelli - spiega Labanti -. Lavora molto sull'autosuggestione ipnotica, tant'è che abbiamo una grande forza nel mondo oncologico proprio per il fatto che le pazienti si guardano allo specchio e non si vedono malate. Con il patch puoi fare la piega, la doccia, puoi andarci a dormire. Non devi togliere la parrucca e poggiarla sul comodino prima di andare a letto, o peggio ancora doverla lavare in una bacinella come si fa con un maglione". Eppure, nonostante l'avanguardia del prodotto e la possibilità di risolvere un problema, restano in piedi ancora molti tabù, soprattutto nel mondo maschile. 

Alopecia femminile e stati depressivi

Chiudendo la parentesi oncologica, dove il patch cutaneo rappresenta a tutti gli effetti un dispositivo medico, non è da sottovalutare la condizione psicologica di una donna davanti a problemi di alopecia o diradamento. "Le alopecie generano una depressione profondissima nelle ragazze" continua Fabrizio Labanti, che racconta il percorso di una sua cliente: "Veniva da un'alopecia androgenetica, quindi una banale calvizie femminile, una cosa che non ha nessun effetto devastante, semplicemente si hanno pochi capelli. Questa ragazza voleva suicidarsi, non voleva più vivere perché non si piaceva così". E sono diverse le storie simili. 

Storie di tricobullismo

Vittime di tricobullismo, però, sono principalmente gli uomini. "Mi capitano tanti ragazzi giovani che subiscono bullismo per i capelli - spiega l'hair designer Fabrizio Labanti -. Se ne parla poco ma è molto diffuso. Essere calvo è un disagio. Se perdi i capelli e te lo faccio notare fa male, eppure nessuno ha la sensibilità di tacere. È un cambiamento importante dello status quo della persona e soprattutto non è un cambiamento che dipende da sé stessi. Cambia l'immagine e tu non puoi farci niente". Le conseguenze possono essere molto pesanti per il benessere psicologico: "Quando la semplice calvizie viene somatizzata male diventa psicosi, e a quel punto molti non escono più di casa. Ho conosciuto un ragazzo che non esce di casa da 7 anni e quando i parenti vanno a trovarlo fa dire ai genitori che è via. Vive isolato". E c'è anche chi vive male l'intimità: "Avevo un cliente che faceva l'amore con il cappello perché non si sentiva a suo agio a farsi vedere con i capelli così. Sì, si può arrivare anche a tanto". 

A creare questa psicosi sono "certe battute ma anche certe domande. La domanda più comune che ricevo dagli uomini - rivela Labanti - è 'come posso giustificarmi con i miei amici', perché si sentono giudicati e derisi. L'uomo è vessato sotto questo aspetto". Allora, piuttosto che andare incontro a questo 'rischio', preferiscono altri rimedi: "Acconciature per nascondere il diradamento, riporti assurdi, polverine estetiche per coprire la calvizie. Un ragazzo si riportava i capelli dal parietale, a sandwich, un'acconciatura visibile a distanza, e mi ha chiesto se si sarebbe visto il patch. Entrano in uno stato di dismorfofobia tale che quasi perdono la concezione dell'estetica, non si rendono conto". 

Il tricobullismo, ci spiega ancora Labanti, è radicato - tra pregiudizi e stereotipi -, motivo per cui è culturalmente normalizzato, a differenza del più generale body shaming, e non c'è abbastanza attenzione nei confronti di questa tematica, che a volte resta un tabù e altre è semplicemente un rospo da ingoiare per i più sfortunati. Basta pensare che le principali manifestazioni di tricobullismo arrivano proprio dalle aziende che vendono lozioni anti-caduta: "Si vede prima un uomo nella doccia, con i capelli rimasi tra le mani, disperato, poi sorridente nella sua Porsche, pieno di capelli, con la lozione in mano. Non è così e non deve essere questo il messaggio. Un ragazzo trova la fidanzata anche senza capelli". Basterebbe fare informazione, sensibilizzare, evitare certi tipi di narrazione stantia e stereotipata - anzi diciamo che inizia a diventare urgente -, così come è avvenuto e avviene per altre forme di bullismo. Perché non c'è una sofferenza di serie b. 

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