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Venerdì, 26 Aprile 2024
Via dal lavoro

Pensioni, via dal lavoro a 63 anni ma l'assegno è "mini": cosa cambia nel 2022

Tridico (Inps) spinge per la possibilità di accedere intorno ai 63/64 anni a una prestazione di importo pari alla quota contributiva maturata alla data della richiesta per poi avere la pensione completa al raggiungimento dell'età di vecchiaia. Il governo valuta con attenzione, i sindacati titubano: "Per molti è insostenibile", e rilanciano Quota 41

Con la legge di Bilancio saranno stanziati circa 5 miliardi per il capitolo previdenza. Il piano dell'Inps per superare Quota 100 dal 31 dicembre in avanti c'è e, va specificato, non è nuovo. Da mesi (ne abbiamo scritto ad aprile per la prima volta) per affrontare la fine di Quota 100 si ipotizza di potrebbe prevedere per i lavoratori appartenenti al sistema misto la possibilità di accedere intorno ai 63/64 anni a una prestazione di importo pari alla quota contributiva maturata alla data della richiesta per poi avere la pensione completa al raggiungimento dell'età di vecchiaia. Il discorso ora entra nel vivo.

Pensioni 2022 a 63-64 anni: chi potrebbe lasciare il lavoro

Ieri il presidente dell'Inps, Pasquale Tridico in una audizione alla Commissione Lavoro della Camera ha fatto sapere che questa ipotesi sarebbe "sostenibile" dal punto di vista finanziario con un aggravio di circa 2,5 miliardi per i primi tre anni e risparmi a partire dal 2028. Al contrario, una Quota 41 per tutti (lasciare il lavoro con 41 anni di contributi a prescindere dall'età) costerebbe nel 2022 4,3 miliardi per poi crescere e toccare nel 2029 oltre 9 miliardi l'anno. Nel 2022 potrebbero accedere alla forma di pensionamento suggerita dall'Inps almeno 50mila persone per una spesa di 453 milioni mentre nel 2023 potrebbero accedere 66mila persone per 935 milioni. Diverso il discorso per il 2024 e 2025, quando l'impatto sulle casse dello Stato sarebbe più rilevante: oltre 1,1 miliardi l'anno e 160mila uscite nel biennio. Se ne parla quindi da mesi, ma come sottolinea oggi il Sole24Ore qualcosa è cambiato: è proprio a questa ipotesi che starebbe guardando con attenzione il governo Draghi. Se la parola d'ordine è sostenibilità, qui "ci siamo". L'ipotesi dell'uscita in 2 fasi trova ampio spazio oggi sui quotidiani.

I requisiti per andare subito in pensione secondo l'Inps

I requisiti sono: almeno 63/64 anni di età (requisito da adeguare alla speranza di vita); essere in possesso di almeno 20 anni di contribuzione; aver maturato, alla data di accesso alla prestazione, una quota contributiva di pensione di importo pari o superiore a 1,2 volte l'assegno sociale. La prestazione completa spetta fino al raggiungimento del diritto per la pensione di vecchiaia. La prestazione è parzialmente cumulabile con redditi da lavoro dipendente e autonomo, e si potrebbero prevedere - spiega - meccanismi di staffetta generazionale, legati anche a part time ed é incompatibile con trattamenti pensionistici diretti, trattamenti di sostegno al reddito, reddito di cittadinanza, APE sociale e indennizzo per la cessazione dell'attività commerciale.

In altre parole, da gennaio ci potrebbe essere possibilità per un lavoratore di 63 o 64 anni, ipotizza Tridico, di prendere la sua pensione (a patto che sia 1,2 volte sopra il minimo, cioè almeno 618 euro al mese) in due tempi: un pezzo subito e un altro dopo 3-4 anni al compimento dell’età di vecchiaia (67 anni). Il primo pezzo corrisponde alla quota contributiva, e allo Stato non costa niente: il lavoratore la incassa subito in base ai contributi versati. Il secondo pezzo è invece la quota retributiva, parametrata agli ultimi stipendi: arriverà a 67 anni. In quegli anni il prepensionato potrà continuare a lavorare.

Pensioni: Ape sociale rafforzata fino al 2026?

Con il rinforzo all'Ape sociale proposte dalla Commissione sui lavori gravosi (proroga fino al 2026, ampliamento della platea per i lavori gravosi e riduzione dei contributi per gli edili da 36 a 30) porterebbe alla necessità di stanziare in tre anni poco più di un miliardo di euro. E' quanto emerge dalle tabelle presentate daTridico secondo le quali per il 2022 l'aggravio sarebbe di 126,7 milioni, 337,1 nel 2023 e 520,7 nel 2024 per poi salire fino a 805 milioni di euro nel 2026. 

Il prolungamento al 2026 dell’Ape sociale in versione estesa a nuove categorie di lavori “usuranti”, come suggerito dalla Commissione tecnica sui lavori gravosi, richiederebbe risorse per oltre un miliardo nei prossimi tre anni per poi arrivare a un maggiore onere di 805 milioni nel 2026. 

I sindacati chiedono ancora Quota 41

Il piano di Tridico non piace ai sindacati, che lo fanno capire a chiare lettere. "La flessibilità per andare in pensione non è un acquisto a rate", spiega Ignazio Ganga (Cisl). "Non condividiamo la proposta di Tridico, l’acconto sulla pensione rischia di non essere di importo adeguato, insostenibile per molti". Sulla stessalunghezza d'oda nche Roberto Ghiselli (Cgil) che contesta apertamente i calcoli di Tridico su Quota 41, la possibilità di uscire con 41 anni di contributi a prescindere dall’età: "Non è vero che costa 9 miliardi: solo la metà di chi ha i requisiti vi accede e poi va sottratta la componente contributiva che non è un costo per lo Stato". Insomma, visto che il tavolo di confronto con le parti sociali non è entrato nel vivo, nessuno si sente di escludere che di Quota 41 si tornerà a parlare. Ma il tempo stringe. 

Tagli delle pensioni future 

I sindacati hanno chiesto al governo di sterilizzare subito gli effetti negativi che la caduta del Pil del 2020 avrà sulla rivalutazione del montante contributivo. Da una nota diramata dal ministero del Lavoro sulla base delle stime Istat è infatti emerso che il tasso medio annuo composto di variazione del Pil nominale tra il 2016 e il 2020 è stato negativo per cui il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo per il 2021 sarà inferiore a uno.

Così mentre Parlamento e governo devono decidere che strade imboccare spunta un taglio automatico degli assegni futuri. È quello relativo al coefficiente di rivalutazione del montante contributivo, il coefficiente che si applica all'insieme dei contributi versati, che per il 2021 sarà inferiore a uno dal momento che il tasso medio annuo composto di variazione del Pil nominale tra il 2016 e il 2020 è stato negativo.

Secondo quanto ha comunicato ieri il ministero del Lavoro in base ai dati Istat, il tasso medio annuo composto risulta infatti pari a -0,000215 e, pertanto, il coefficiente di rivalutazione si ferma a 0,999785. Per legge questo tasso però non può essere inferiore a 1, "salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive" a carico quindi dei pensionati futuri cui toccherà subito gli effetti di questo calo del Pil. "La rivalutazione pari a 1 per il 2021 non basta" segnala la Uil, che chiede al governo "di escludere completamente dal calcolo delle pensioni il dato del 2020 per non penalizzare ulteriormente le pensioni presenti e future".

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