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Sabato, 27 Aprile 2024
L'intervista a Today

Francesco Montanari: "Noi attori in Italia contiamo poco, serve ricreare uno star system"

Il successo di 'Romanzo criminale', la Palma d'Oro per 'Il Cacciatore', lo stato di salute del cinema italiano, l'importanza del teatro

L'esordio televisivo nel 2008 con Romanzo criminale - serie tv targata Sky diventata vero e proprio fenomeno nell'arco di due stagioni - gli regalò una popolarità dirompente e inaspettata. A 23 anni Francesco Montanari si era appena diplomato all'Accademia Silvio D'Amico e iniziava la gavetta. Dieci anni dopo vinceva la Palma d'Oro per il ruolo del magistrato Saverio Barone in un'altra serie, stavolta Rai, Il Cacciatore. Si è preso cura del suo talento, come suggerito da Hitchcock in un'intervista per lui illuminante, scrollandosi di dosso il peso di un personaggio - il Libanese - che avrebbe schiacciato qualunque giovane attore alle prese con un successo così fulmineo e senza la reale necessità di fare questo mestiere. Quella che aveva lui. Poco divismo e tanto studio, dal teatro al piccolo e grande schermo, arrivando ad essere oggi uno degli attori italiani più versatili.

Per tre stagioni ha vestito i panni di Saverio Barone ne Il Cacciatore. Una quarta la farebbe?
"Se fosse scritta bene sì".

C'è questa possibilità? Anche se remota, visto che la serie è arrivata al suo epilogo naturale...
"No, non penso proprio si farà una quarta stagione. Il Cacciatore è finito. O almeno, Saverio Barone ha finito, anche perché è una storia vera e l'idea della serie era raccontare il suo percorso fatto all'antimafia. Se poi hanno intenzione di fare una quarta stagione con Linda Cariti, l'attrice che ha fatto Paola Romano, il procuratore a cui Barone cede il testimone, questo non lo so. Dovrebbe chiedere a lei o alla Cross, ma io credo di aver finito. Saverio Barone è stato appeso al chiodo".

Ci sono punti in comune tra lei e il pm Barone?
"Sì e no. Sicuramente Saverio Barone è molto più caparbio e tenace di me. Ha il focus, come direbbero in America. Io purtroppo mi perdo in velleità a volte, sono un po' dispersivo. Ma sto imparando. Ora ho quasi 38 anni e ci sto provando a focalizzare le energie su quello che veramente mi interessa".

Quali sono le battaglie per cui vale la pena combattere?
"Questa purtroppo non è mia, mi piacerebbe molto. Vidi un'intervista di Hitchcock, tempo fa, in cui diceva che l'essere umano ha il dovere di prendersi cura del proprio talento. Ecco, io penso che questo racchiuda tutto. Da questo deriva anche la relazione con il partner, con un figlio, con l'essere umano in generale. Devi prenderti cura del tuo talento, qualsiasi esso sia, perché molto spesso il talento sembra una cosa artistica, invece è il coming out costante di un genere che agisce. Questo è un motivo valido per combattere".

Romanzo criminale fu un successo straordinario. Era il 2008. Lei è stato uno dei pionieri delle serie tv...
"Romanzo Criminale arriva quando avevo 23 anni. Ero appena uscito dalla Silvio D'Amico e tornavo da una tournée dove facevo la comparsa. Iniziavo la gavetta. Di consapevolezza del prodotto non ne avevo, ero ancora vergine a tutto. La serie poi è diventata quello che è diventata. E' stata pioneristica, sì, ha aperto un filone produttivo italiano importante nel mondo. Con Il Cacciatore avevo sicuramente una percezione più consapevole, ho vinto la Palma d'Oro, anche questo in un certo senso è pioneristico. Ma ho anche co-prodotto la prima serie web. Si chiama Super G, parla di una coppia omosessuale di supereroi. Un incrocio tra Casa Vianello e X-Men. Chiaramente non avevamo i soldi e abbiamo fatto Casa Vianello, però a tema supereroi. Poi sono esplose le web series e sono arrivati fenomeni grandiosi che hanno invaso la rete. Non credo ci sia mai una consapevolezza strategica, ma un tentativo di attenzione a quello di cui c'è necessità". 

Le serie tv sono spesso prodotti di grande qualità, né più né meno rispetto a un film. Un bene o un male per il cinema?
"Sono due linguaggi diversi e sono estremamente dignitosi e utili. I film sono necessari, ma lo sono anche le serie. E' come la differenza tra un racconto e un romanzo: la serie tv ti dà più possibilità di raccontare perché hai del tempo a disposizione che nel film non hai, il film invece ha delle meravigliose capacità di sintesi che alla serie mancano. Sono entrambi importanti e se ne sono accorti tutti, tanto che l'Academy ha messo i premi per le serie, Cannes ha aperto un festival ad hoc. Nel cinema c'è ancora un po' quella sorta di snobismo intellettuale per cui tutto il resto è serie b. Cosa completamente anacronistica secondo me, ma purtroppo i padri fanno sempre i conti coi propri pregiudizi. Se per cinema invece intende la sala, quella inevitabilmente ha subìto un processo culturale ostile. Purtroppo. Questa pandemia non ha potuto fare proselitismo nelle nuove generazioni, ma del resto hai un'offerta a casa infinita e puoi scegliere quando usufruirne. La sala però funziona quando ci sono dei prodotti che il pubblico riconosce come sensati per una sala e credo che questa sia una domanda che le produzioni italiane dovrebbero sviscerare. Qual è il motivo per cui una persona deve uscire e pagare un biglietto al cinema? Non si può più delegare al fascino della sala in sé, perché ormai culturalmente non c'è più".

Ha citato l'apertura dell'Academy, di Cannes. Ai David di Donatello invece le serie restano ancora a bocca asciutta.
"Siamo in ritardo. E' una realtà talmente dominante che non vedo perché non dovrebbe essere considerata. Anzi, forse potrebbe essere uno strumento importante per ricreare una magia dello star system che in Italia è molto carente".

Si spieghi meglio...
"Se pensa che c'è gente nel mondo che fa le nottate per vedere gli Oscar, i David purtroppo sono sempre relegati al settore. Questo ci fa capire prima di tutto quanto contiamo come professionisti in un contesto sociale italiano, quindi praticamente niente. Di conseguenza, quando c'è una pandemia, siamo messi agli ultimi posti ed è giusto che facciamo delle battaglie, perché difendiamo la nostra dignità di vita e di ruolo sociale. Forse dobbiamo focalizzarci sulla possibile crescita di uno star system effettivo. E' bizzarro che Silvio Orlando vince meritatamente il David per un film molto bello, Ariaferma, ma che i più nemmeno hanno sentito il titolo. Senza il pubblico come lo facciamo il cinema?".

Il teatro invece si sta riscoprendo, non crede?
"Dopo questi anni drammatici della pandemia c'è una volontà estrema di condividere spettacoli dal vivo da parte del pubblico. I teatri sono abbastanza pieni. Siamo in un momento storico molto importante, non dobbiamo deludere lo spettatore. Parlo di delusione degli intenti. Non è più tempo di farsi degli intellettualismi sterili, ma di riscoprire il palcoscenico per l'animalità che è propria del palcoscenico. Eduardo De Filippo diceva che il teatro è degli attori. Non è un discorso di supremazia del ruolo, perché senza un testo e un regista non si può fare, ma di essere vivente che sta lì e agisce. Allora è proficuo. Come uno scrittore che ti vuole far vedere quanto è bravo a scrivere, poi ce n'è un altro che scrive con semplicità estrema e ti dilania l'anima. Questo è un lavoro che non si può fare in maniera autentica senza la necessità di farlo". 

Per il secondo anno consecutivo, a giugno, firma la direzione artistica di Narni Città Teatro. Un'altra bella sfida. 
"Ho sempre desiderato uno spazio di condivisione. Il teatro è questo. C'è un uomo che racconta una storia e qualcuno che lo guarda, è quello il principio basilare. Con Davide Sacco e Ilaria Ceci, che sono i miei soci, abbiamo un'immagine, una poetica, che è quella di fare spettacoli vivi. Facciamo un teatro realistico in cui esiste l'umanità. Non dobbiamo dare risposte ma porre domande, poi ognuno trova in sé una via da seguire. Narni Città Teatro nasce tre anni fa da Davide e Ilaria, io sono subentrato l'anno successivo. Sono 32 eventi in 3 giorni, dal 17 al 19 giugno, dove lo spazio naturale di Narni prende vita, l'umanità degli spettacoli è anche l'umanità stessa della città. E' un viaggio alla scoperta, con grande divertimento, commozione, emozione ed empatia. Questa è l'ambizione, speriamo di riuscirci".

A proposito di umanità, molto spesso viene narrata come sofferente e abietta. C'è urgenza di descriverla in modo più positivo?
"Non lo so. Non so se umanità è una parola positiva o negativa. L'umanità definisce l'essere vivente e a volte può essere brutto. C'è chi di questa bruttezza ne fa monito e prova a dare spazio alla bellezza, c'è invece chi non ci riesce per tanti motivi, non solo motivi di dolo. La mia ambizione come operatore del settore è far vivere delle esperienze al pubblico. Il primo spettacolo fatto dalla nostra produzione, un testo che ha scritto Davide Sacco, di cui ha curato anche la regia, si chiama L'uomo più crudele del mondo. Ci siamo io e Lino Guanciale. Quello è proprio lo spaccato che può rappresentarci". 

Il momento storico che stiamo vivendo è sicuramente dei più complicati, almeno dell'ultimo mezzo secolo. Qual è il suo sentimento?
"In questo momento il mio sentimento è cercare di capire come poter uscire da una depressione sociale, come riuscire a fare i conti con questo tremendo ossimoro in cui o sei proiettato alle spalle oppure sei preoccupato per il futuro e ti viene l'ansia. Quindi fondamentalmente non stai mai dove dovresti stare, nel tuo presente. E' un po' l'esempio del mutuo: prendo un mutuo grande e se mi focalizzo sulla cifra totale mi viene un infarto, devo pensare al mensile e quindi organizzarmi. Il mutuo è un esempio pratico, quando si parla di psiche e di emotività diventa tutto più oscuro, non c'è un bugiardino con le istruzioni. Mi rendo conto che c'è sempre una sorta di nebbiolina, almeno per me, che ti occlude lo sguardo. Ma anche parlando con tante persone, non solo del mio settore, mi rendo conto che ci sono questi germi di depressione, come se ci fosse lo sforzo della vita che nasce ma a un certo c'è un terreno apparentemente secco".

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