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Venerdì, 26 Aprile 2024
CASO MARO' / India

Marò a casa, Tomaso ed Elisabetta in carcere: la storia

Due giovani italiani rinchiusi nel carcere indiano di Varanasi con una condanna all'ergastolo temono che il caso dei marò tolga loro qualsiasi speranza di essere assolti e tornare in Italia

I genitori di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i due ragazzi rinchiusi nel carcere indiano di Varanasi con una condanna all'ergastolo per l'accusa di avere strangolato anni fa il loro compagno di viaggio Francesco Montis, temono che la vicenda dei due marò possa avere ripercussioni negative sui loro tentativi di portarli via dall'India.

I TIMORI - "Speriamo che da qui al 3 settembre quando la Corte Suprema esaminerà il nostro ricorso, questa crisi sia finita" hanno detto all'ANSA i genitori del ragazzo di Albenga arrestato insieme all'amica nel febbraio del 2010 in un hotel di Varanasi. Euro Bruno, la moglie Marina Maurizio e il padre di Elisabetta, Romano Boncompagni, hanno incontrato stamattina a New Delhi per la seconda volta in tre giorni l'ambasciatore d'Italia Daniele Mancini.

Ieri sono partiti, per l'ennesima volta,  per Varanasi. "L'avvocato che sta preparando il ricorso ci ha assicurato che la Corte Suprema è un'istituzione completamente indipendente e che non c'è nessun timore che i giudici possano essere influenzati da avvenimenti esterni come la contesa sui maro" hanno aggiunto. Dopo che l'Alta Corte di Allahabad lo scorso ottobre ha confermato l'ergastolo, i tre genitori hanno incaricato l'avvocato Mukul Rohatgi, che è lo stesso legale che difende l'Italia nella disputa sul mancato ritorno dei militari italiani. "Questo è il nostro sedicesimo viaggio in India - precisano i coniugi Bruno aggiungendo di aver speso "una fortuna" in spese legali, trasferte degli avvocati e in un complesso sistema di comunicazione con i ragazzi che non possono ricevere telefonate in carcere. Dopo numerose richieste di aiuto allo Stato italiano, il padre di Tomaso ha poi aggiunto "che dallo scorso anno, quando è stato respinto l'appello, abbiamo maggiore supporto dello staff della Farnesina".

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LA STORIA – Nel febbraio del 2010 Tomaso Bruno, 29 anni, di Albenga (SV), ed Elisabetta Boncompagni, 38 anni, di Torino, partono per una vacanza in India in compagnia dell’amico Francesco Montis, 30 anni, di Terralba (OR). Nella città sacra di Varanasi prendono una stanza tutti insieme all’hotel Buddha di Chentgani, in periferia. Si sente male in hotel, Tomaso ed Elisabetta chiamano i soccorsi e l’ambasciata italiana. Montis ha problemi di salute, una brutta tosse perenne forse provocata dal fumo. E' il 4 febbraio 2010. Come recita il verbale della polizia, alle 9 di mattina Tommaso e Elisabetta chiamano sotto nella hall perché c’è il loro amico che sta male. Il portiere sale su nella loro camera al quarto piano. Francesco è in stato di semincoscienza. Fanno venire una ambulanza per portarlo di corsa in ospedale. Poi tutt’e due gli amici, ma soprattutto Tommaso, aiutano gli infermieri a portare giù il malato. Quando Francesco arriva in ospedale non c’è più niente da fare: i medici possono solo constatarne il decesso.

Una disgrazia secondo alcuni, non per il tribunale indiano. Tomaso e Elisabetta finiscono dietro le sbarre due giorni dopo. Sul corpo di Montis, così recita l’autopsia, ci sono lividi, segno, secondo gli inquirenti di una colluttazione. Un triangolo amoroso, questo pensano gli inquirenti. I tre hanno consumato un grammo d’eroina e dell’hashish la sera precedente alla morte del ragazzo. Ma del triangolo amoroso supposto e negato dai due da sempre, non c’è prova, nè testimone. Gli amici smentiscono la relazione illecita. Ma l’impianto accusatorio non vacilla.

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L'AUTOPSIA -  L’esame autoptico è contestato dai difensori dei due italiani: è stato fatto infatti da un oculista, non da un patologo locale come avviene di solito. Nel referto si parla di morsi di animali presenti sul corpo, presumendo roditori, segno delle pessime condizioni dell’obitorio indiano. Nella relazione si legge del ritrovamento di un ematoma nel cervello, esattamente un ematoma subaracnoideo, che da solo potrebbe essere stata la causa stessa della morte. Ma l’emorragia viene trascurata nel giudizio finale.

LA SENTENZA - La sentenza è una mazzata: ergastolo, sia per Tomaso sia per Elisabetta. I genitori continuano a lottare, sperando che la vicenda dei marò non influsica sulle decisioni della Corte Suprema.

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