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Lunedì, 29 Aprile 2024
L'intervista

Il futuro dello smart working in Italia

Dal 15 ottobre migliaia di lavoratori tornano in ufficio dopo 18 mesi di quello che è stato in realtà telelavoro. Alessandra Gangai, ricercatrice del Politecnico di Milano, spiega che cosa è successo e perché è importante un cambio culturale

L’ora X per la maggior parte dei dipendenti della pubblica amministrazione è scattata venerdì 15 ottobre, giorno in cui è diventato obbligatorio anche il Green Pass per accedere a quasi tutti i luoghi di lavoro: stop allo smart working, si ritorna in ufficio prendendo nuovamente posto davanti alla scrivania, con orari di ingresso e orari di uscita prestabiliti.

Durante il lockdown, infatti, il 94% delle pubbliche amministrazioni, il 97% delle grandi imprese e il 58% delle PMI ha esteso la possibilità di lavorare da remoto e il numero di lavoratori da remoto è salito a 6,58 milioni. Nella fase 2, la maggior parte delle grandi imprese e delle PA ha riaperto le sedi tra maggio e giugno, spinti da diverse motivazioni, e a settembre il Governo ha diffuso una nota in cui spiegava che “la modalità ordinaria di lavoro nelle pubbliche amministrazioni torna ad essere quella in presenza”. Eppure in questi 18 mesi parecchie aziende hanno imparato molto in termini di smart working, e molti lavoratori hanno espresso il desiderio, di poter continuare a usufruire di una modalità lavorativa disciplinata anche dalla legge, se non in modo totalitario quantomeno in un nuovo modello ibrido in cui lo smart working si alterna al lavoro in ufficio.

Un metodo già collaudato con successo all’estero e adottato anche da alcune multinazionali in Italia, dove però il concetto di smart working viene spesso confuso e associato a quello che è in realtà telelavoro. Per il "new normal", al termine dell’emergenza, le iniziative di smart working dovrano quindi necessariamente evolversi, e oltre la metà delle grandi imprese dovrè riprogettare anche gli spazi di lavoro.

Cos’è lo smart working

Lo smart working, innanzitutto, non è il semplice lavoro da casa, ma una modalità differente di pensare al lavoro e alla produttività. Non si ragiona più esclusivamente per tempo e orari, ma per obiettivi e competenze, cercando di mettere il lavoratore nelle condizioni migliori per poter svolgere i suoi compiti. Che cosa sia lo smart-working lo ha spiegato bene l’osservatorio dedicato del Politecnico di Milano, che da anni studia il fenomeno: “Una  filosofia manageriale fondata sulla restituzione al lavoratore autonomia e flessibilità nello scegliere il luogo, l’orario di lavoro e gli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Lo smart working viene regolato in Italia dalla legge sul lavoro agile 81 del 2017, una sorta di legge quadro cui le aziende possono fare riferimento in cui viene specificato che il lavoro agile viene legittimato con lo scopo di “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, ed è promosso come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

La norma prosegue poi stabilendo una serie di “paletti” entro cui datore di lavoro e lavoratore possono muoversi per l’accesso al lavoro agile. Lo smart working non comporta però soltanto più elasticità e una ridefinizione di orari e obiettivi, ma anche un cambio culturale. E per le aziende e i lavoratori italiani non c’è stato il tempo di affrontare questo cambio in modo graduale: dall’oggi al domani migliaia di persone si sono ritrovate a lavorare da casa a causa del lockdown. Con conseguenze che ancora oggi si fanno sentire, come ha spiegato a Today Alessandra Gangai, ricercatrice dell'Osservatorio del Politecnico di Milano.

Dottoressa Gangai, la pandemia ha portato lo smart working in Italia?

"La tendenza delle organizzazioni e delle aziende è stata quella di puntare su un lavoro da remoto. È vero che lo scorso anno avevamo monitorato la diffusione degli smart-worker notando un’esplosione soprattutto nel primo lockdown, quando in Italia siamo passati da 570.000 smart-worker a 6 milioni e mezzo, ma per un anno e mezzo abbiamo chiamato smart working qualcosa che non lo è. E non lo è alla base, visto che la legge sul lavoro agile specifica che il lavoro debba essere svolto senza precisi vincoli di luogo e orario, lasciando al lavoratore la scelta di dove lavorare e come sulla base di obiettivi condivisi. A marzo 2020 invece l’unica scelta era lavorare a casa, seguendo quasi sempre gli orari degli uffici".

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Credit: Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano

Che cosa è successo quindi in pandemia?

"Abbiamo fatto ricorso a uno smart working molto semplificato, più simile al telelavoro piuttosto che alla reale concezione. Questo regime “semplificato” resterà sino al 31 dicembre 2021, sino a quando cioè durerà lo stato emergenza, ed è stato adottato perché era necessario. La legge 81 ha una cornice molto flessibile, perché non ha senso andare a definire con molti articoli, regole e procedure qualcosa che nasce come molto flessibile. In pandemia, vista l’urgenza, la soluzione ideale è stata appoggiarsi alla legge esistente, semplificarla e avere un quadro normativo che consentisse a tutti di lavorare da casa senza modificare contratti".

Un modo per facilitare, dunque. Però?

"Però è mancata totalmente la flessibilità di scegliere se lavorare a casa o in ufficio. È stato un cambio drastico e improvviso, invece il passaggio allo smart working è un cambiamento culturale, non si fa dall’oggi al domani. Bisogna cambiare la cultura di un’organizzazione e delle persone, ci vuole un accompagnamento e una formazione ,soprattutto in quelle organizzazioni che storicamente fanno più resistenza, e cioè il middle management. Il manager a questi livelli vuole che i collaboratori vadano in ufficio perché vuole vederli: vedendoli in presenza si sente più tranquillo, mentre lo smart working prevede di cambiare approccio e passare a quello in cui una persona può scegliere quando e dove lavorare. Si ragiona per obiettivi, non sul tempo, e questo per il management è più faticoso e richiede più impegno: bisogna ripensare il piano di lavoro, ragionare ad personam, definire gli obiettivi e coordinare maggiormente".

È anche una questione di fiducia, allora.

"Certamente. Inutile per esempio lavorare da casa se ogni due minuti il capo chiamo per sapere cosa sto facendo, meglio andare in ufficio. Quando si fa smart working bisogna quindi agire anche sugli stili di leadership, è necessario cambiare l’approccio. Inoltre lo smart-working adesso è diventato il “responsabile” di determinate criticità: il lavoro da remoto forzato è stato troppo prolungato e chiaramente ora emergono, ma sono criticità tipiche del telelavoro. Il senso di isolamento, il sentirsi sempre connessi e sempre reperibili e quindi l’over-working. Ma non sono dovute allo smart working vero, piuttosto alle esigenze di quel momento, e invece oggi in molti casi il sentimento è che lo smart-working non va e non fa bene. Le persone però si sentono isolate perché per 18 mesi non hanno visto i colleghi, bisogna analizzare luci e ombre e andare verso un’applicazione più efficace, anche perché ci sono stati anche tanti aspetti positivi nonostante non sia stato ottimale".

Per esempio?

"Innanzitutto il percorso di apprendimento e crescita di competenze digitali, che è stato rapidissimo. Oggi quasi tutti sappiamo per esempio usare strumenti di video conferenza. Anche per quanto riguarda la pubblica amministrazione si è registrato un forte miglioramento in termini di competenze, inoltre per diverse aziende sono caduti molti stereotipi: forzate a ricorrere allo smart-working, alla fine ne hanno capito e apprezzato i punti di forza e hanno deciso di aumentare l’investimento in questo senso".

Cosa va fatto quindi per accompagnare le aziende e i lavoratori italiani in questa transizione?

"Innanzitutto va ricordato che alcune condizioni di contesto sono cambiate, coi i vaccini abbiamo assistito a una tendenza al rientro in sede, le organizzazioni già l’anno scorso si sono rese conto del ruolo importante che svolge la sede di lavoro in termini di socializzazione perché favorisce un senso di appartenenza e engagement, ma il ruolo dell’ufficio è cambiato. Non andremo Più un ufficio per svolgere tutte le attività in modo indistinto, diventerà un luogo in cui fare cose specifiche e in cui stimolare determinati processi come il brain-storming o il team building. La normativa c’è già ed è una normativa valida, ma serve una policy che definisce le caratteristiche del modello all’interno dell’organizzazione. Non c’è una ricetta perfetta, ogni azienda deve definire le caratteristiche del proprio modello sulla base degli obiettivi strategici e delle persone: bisogna auto-analizzarsi, il modello giusto è questo".

L’Italia è pronta a fare qualcosa che in altri Paesi è già diventata realtà concreta?

"Certo, l’Italia è pronta e si può fare, con determinate condizioni, non si può improvvisare, che è quello che è stato fatto in emergenza. Però tutti possono farlo, tutti possono cercare di migliorare quello che è il modo di lavorare dell’organizzazione conciliando diverse esigenze. E non vuole dire lavorare da remoto e basta. Pensiamo a Tetrapak: l’azienda ha ripensato il processo produttivo, gli operai fanno smart-working dal 2012, è stata rivista la linea produttiva affinché fosse su isole. Ogni operaio si gestisce i suoi tempi, ha i suoi pezzi e gli operai decidono tra di loro come organizzarsi per far sì che il turno sia coperto. Ognuno contribuisce a redigere l’orario in linea, e l’orario viene poi sottoposto al supervisore e approvato. I lavoratori sono molto soddisfatti, ed è stato accertato un incremento di produttività. Va ripensato in modo intelligente il modo di lavorare, che non vuol dire lavorare da casa ma pensare a un modello ibrido e flessibile. In questo modo le persone si sentono motivate e stimolate perché gli vengono date responsabilità, si risparmiano tempi e costi e si ha anche un riscontro sull’ambiente, perché non ci ritroviamo tutti imbottigliati nel traffico alle 8 di mattina".

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