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Sabato, 27 Aprile 2024
l'accoglienza

Cosa dovremmo sapere prima di dirci pronti ad accogliere (davvero) i profughi

La psicoterapeuta Francesca N. Vasta ha affrontato con noi il tema dell'accoglienza di adulti e bambini ucraini dal punto di vista emotivo e psichico. Di chi arriva, ma anche di chi apre le porte di case e scuole

Per quanto si riesca ad empatizzare, non è semplice riuscire a immedesimarsi del tutto nelle persone, donne e uomini, adulti e bambini, per i quali la guerra è diventata vita. Vita vera, assoluta e maledettamente tangibile, travolta dagli eventi che 33 giorni fa hanno iniziato a sconvolgere una quotidianità che più passa il tempo e più si sente sempre più vicina: parte di un sentire emotivo che invoca l'attitudine all'accoglienza come principio indispensabile al supporto. 

"Gli italiani hanno spalancato le porte delle proprie case e scuole ai profughi ucraini, con quel senso dell'accoglienza che è proprio del nostro Paese. Continueremo a farlo, perché davanti all'inciviltà l'Italia non intende girarsi dall'altra parte": così il presidente del Consiglio Mario Draghi, parlando alla Camera in occasione dell'intervento del leader ucraino Zelensky, ha ricordato il valore di un impegno collettivo che richiede uno sforzo importante, in termini pratici sì, ma anche emozionali. E proprio per approfondire il tema dell'ospitalità dei profughi nel nostro paese dal punto di vista psicologico di chi è accolto e di accoglie, abbiamo rivolto delle domande a Francesca N. Vasta, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente a contratto presso l’Università Cattolica di Roma, Didatta e supervisore della Scuola di Specializzazione in psicoterapia COIRAG, per cercare di comprendere meglio il senso di un gesto che travalica l'importanza di una mera azione e ambisce a umana, profonda propensione all'altruismo. 

Ci aiuta a capire cosa succede in questi casi nella mente di una persona che da un giorno all’altro non solo resta senza più nulla, ma è costretta anche a lasciare il Paese in cui ha vissuto da sempre?

Sintonizzarsi con chi vive situazioni così dolorose come trovarsi sotto i bombardamenti ed essere costretti a scappare, anche solo immaginandole o osservandole a distanza, è difficile. Spesso di fronte a tanto dolore entriamo in allarme non riuscendo davvero a pensare, attiviamo inconsapevolmente possibili reazioni difensive tra le quali il metterci “in fuga” rivolgendo lo sguardo verso altro oppure, al contrario, “attaccando” e ricercando informazioni di ogni genere per trovare un supposto “controllo” rispetto a quanto sta accadendo; non reggiamo noi stessi - spettatori a distanza - il sostare in una zona psichica di smarrimento e incredulità disarmante. Ma chi vive tutto questo direttamente? Riferendomi a quanto sappiamo dalla storia di chi ha vissuto esperienze di guerra, gli studi sugli effetti psicologici di tragedie di questa portata rientrano in un campo che, per semplificare il discorso, appartiene alla cosiddetta area traumatica. In questo scenario troviamo diverse angolazioni di lettura del trauma; citandone alcune abbiamo la prospettiva di coloro che sperimentano in prima persona gli attacchi; coloro che non sono personalmente implicati ma hanno un legame con chi è stato o è sul campo di guerra; coloro che rischiano la vita perché si trovano a vario titolo, lavoro o volontariato, nei territori dove si combatte. Non voglio appiattire la drammatica esperienza di chi sta scappando dalla guerra inquadrandola in categorie, ma vorrei aiutare a cogliere la complessità di lettura che ci richiede questa situazione per prepararci al meglio ad un buon incontro con chi approda nel nostro paese. Fermo restando che chi scappa dalla guerra ed è costretto a lasciare la propria casa e il proprio paese parte con l’angoscia rispetto a ciò che troverà al ritorno e la speranza di poter rientrare presto.

Che impatto ha tutto questo nella mente dei più piccoli, dei bimbi ucraini, in tal caso?

I bambini vivono un’età evolutiva dove è primario essere parte di un nucleo familiare nel quale sperimentino una sana dipendenza dagli adulti. Per loro ancor più forse che per gli adulti, non è così sostanziale il “materiale”: i bambini necessitano di sentire la continuità dei legami, poter essere vicini alle loro madri, ai cari con cui sono partiti, come abbiamo visto, in alcuni casi ai loro animali. Hanno bisogno di accudimento e di “leggere” speranza nei volti di chi si prende cura di loro, assicurare protezione e sicurezza ai loro genitori significa proteggere anche i bambini. La bambina ucraina che in un video è ripresa in un bunker con altri adulti ci mostra con chiarezza la capacità dei più piccoli di reagire in maniera creativa al dolore: canta con passione la canzone di un noto cartone della Disney e nel bunker per un momento si respira aria di commossa magia. In Italia stanno arrivando bambini con famiglie forzatamente separate, nella migliore delle ipotesi con le madri, con i nonni, con i fratelli, purtroppo sappiamo che i padri rimangono in guerra pertanto dobbiamo tenere conto di questa situazione nelle pratiche di accoglienza. Poi ci sono i piccoli che hanno perso uno o entrambi i genitori... È un discorso troppo complesso che richiederebbe a mio parere una lunga riflessione.

Alcuni video hanno documentato l’arrivo dei piccoli studenti nelle scuole italiane tra applausi, cartelloni, bandiere gialle e azzurre. È giusto ricreare un’atmosfera di festa come quella documentata nei filmati oppure c’è il rischio che i bambini, già segnati da un trauma importante, restino storditi da tanto “calore”?

Facciamo un esempio elementare: quando a qualcuno dei nostri cari accade qualcosa di difficile, di preoccupante, come ci comportiamo? Gli organizziamo una festa o tentiamo di garantirgli un clima sobrio e incentrato sull’ascolto? In questo momento la scuola deve attivarsi, impegnandosi a predisporre una situazione di equilibrata accoglienza dove i bambini ucraini possano innanzitutto “ritrovarsi” tra loro e incontrare i bambini italiani, incontro che avverrà per un tempo limitato. Teniamo presente che chi arriva ha un progetto di ritorno nel propio luogo di appartenenza. In questi casi la scuola può svolgere il suo importante ruolo pedagogico mostrando un volto capace di pensare e progettare. Non bisogna solo “includere” i bambini ucraini ma progettare laboratori dove poter cooperare insieme, dove i piccoli ucraini possano trasmettere le loro pratiche di apprendimento ai bimbi italiani e viceversa. 

Ascoltare e rispondere alle domande dei bambini è fondamentale, dunque.

Sì. Le mie figlie frequentano una scuola primaria a Roma e posso dire che in questo momento ci sono insegnanti capaci di ascoltare le domande dei bambini e spiegare cosa sia la guerra in termini utili e fruibili, illustrando come il conflitto sia una forma di interazione sociale imprescindibile e come da esso si possano generare diversi esiti: uno distruttivo come la guerra, ma anche uno creativo come lo sviluppo di un dialogo cooperativo dove tutti i coinvolti riescano a portare il loro contributo. Sono contenta di poter testimoniare la preziosità dell’essere parte di una comunità scolastica: in una prima elementare la maestra di italiano ha attivato un progetto chiamato 'progetto gentilezza' che avvicina i bambini di sei anni (provenienti anche da culture diverse) alla conoscenza delle parole che si adoperano e che ci definiscono trasmettendo l’importanza dell’uso che se ne fa. Ci si concentra anche sul creare opportunità di conoscenza e scambio tra tutti bambini, offrendo l’occasione così anche a chi non si è mai parlato di scoprirsi. Si pratica lo sviluppo della curiosità nei confronti degli altri. Questo è solo un esempio di apprendimento partecipato di pratiche cooperative. Tocco con mano la competenza di alcuni insegnanti, di italiano, di matematica, anche di una giovane e brillante insegnante di sostegno, e ho imparato che molti bambini non si fermano davanti alla diversità e hanno capacità di comprensione e attivazione per l’inclusione che va ben oltre le parole. Tali risorse naturali possono crescere nel tempo se coadiuvate da insegnanti capaci di coglierle e amplificarle. Abraham Maslow, psicologo statunitense di origine ucraina, ha parlato dell’autorealizzazione dell’individuo anche in termini di sviluppo di un sentimento comunitario e democratico.

C’è un modo “giusto” per accogliere chi ha vissuto la guerra sulla sua pelle? E noi siamo sufficientemente preparati a fronteggiare le emozioni che piccoli e grandi cittadini ucraini ci rimandano con la loro presenza nel nostro Paese?

In Italia è presente un’ampia comunità ucraina, questa è una risorsa che va impiegata nelle pratiche di accoglienza. Per aiutare i bambini e le loro famiglie non è opportuno puntare all’integrazione immediata ma ricordare che adesso hanno bisogno di ritrovarsi e riconoscersi, garantire la possibilità di sperimentare un senso di appartenenza potrà aiutare l’apertura e la fiducia verso il paese che li ospita. Non credo esista un modo giusto, ma tanti e diversi modi di accogliere.

I profughi che scappano dalle guerre ancora in corso in tutto il mondo, purtroppo, ci sono sempre stati. Eppure adesso si parla solo degli Ucraini. È penoso anche solo pensarlo, ma pare che ci siano profughi più meritevoli di altri… Sarà perché questo conflitto, a due passi da noi, ci spaventa più di altri, perché ci ha fatto toccare con mano una situazione che fino ad ora abbiamo studiato sui libri di storia?

Nel libro Ogni cosa è illuminata dello scrittore Jonathan Safran Foer, un giovane americano va alla scoperta delle proprie radici familiari nella patria del nonno l’Ucraina. Compie un viaggio alla ricerca di tracce che lo condurranno all’incontro con chi ha vissuto come vittima o come carnefice il dramma degli assedi e dello sterminio nazista. “La fine del mondo è giunta spesso, e continua a giungere spesso. […] deve ancora nascere un essere umano che sopravviva un periodo storico che non contenga almeno una fine del mondo” si legge in un brano del libro. Il protagonista stringerà un legame con l’interprete che lo accompagna durante un viaggio che alla fine gli scriverà: “Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato... dall'interno guarda l'esterno, come dici tu alla rovescia...in questo modo io sarò sempre lungo il fianco della tua vita e tu sarai sempre lungo il fianco della mia vita”. L’esodo dei profughi dall’Ucraina ci ha mostrato un volto da non dimenticare. Sappiamo che alcuni profughi hanno vissuto un'ulteriore “vittimizzazione”, che sono rimasti bloccati per la loro nazionalità. I video postati sui social network ci hanno fatto vedere originari del Ghana, della Nigeria e del Marocco fermi alle frontiere e bloccati dalle forze dell’ordine. Nel mondo ci sono 82 milioni di persone in fuga e moltissimi provengono dallo Yemen, dalla Siria, anche loro sono profughi anche se non sono nostri vicini. Bisognerebbe che i governi dell’Unione Europea iniziassero davvero pensare a pratiche di accoglienza e tutela di percorsi per arrivare nei paesi che possono offrire asilo. 

Come si fa ad imparare, ad interiorizzare la “cultura dell’accoglienza” che non dovrebbe avere colori e bandiere?

Dovremmo iniziare a sviluppare nelle reti di relazione primarie, come la famiglia, e secondarie, come la scuola, i gruppi sportivi, parrocchiali, di socializzazione, di studio e anche dei luoghi di lavoro. Culture fondate sulla cooperazione e non sul desiderio di sottomettere l’altro. L’altruismo – che è anche dimostrato essere un fattore di crescita importante nei gruppi – svolge una funzione sociale e personale nel garantire il benessere. Questo vale sempre, non solo in periodi in cui abbiamo sotto gli occhi il dramma della
guerra. Nel pensare l’accoglienza, è importante distinguere le posizioni esistenziali diverse del profugo e del migrante: quest’ultimo ha un sogno, una speranza che può trasformarsi in progetto nel paese raggiunto. Il profugo è in fuga dal luogo in cui aspira a tornare, si tratta di una permanenza transitoria nel nostro paese, tuttavia è una permanenza cruciale per il recupero di una visione di sé e del mondo dopo il trauma della guerra. Dovremmo cercare di accogliere, per riuscire a trasformare) anche quei vissuti di ambivalenza, vendetta verso chi ha fatto del male ai loro cari e alle loro famiglie. Questi sentimenti possono riguardare anche soggetti che non c’entrano direttamente con l’accaduto, magari ne sono distanti geograficamente, ma a causa di una particolare sensibilità possono rimanerne comunque fortemente traumatizzati. Concludo con le parole di Papa Francesco: "E' ormai evidente che la buona politica non può venire dalla cultura del potere inteso come dominio e sopraffazione, ma solo da una cultura della cura, cura della persona e della sua dignità e cura della nostra casa comune". 

Vasta -4-2


 

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