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Sabato, 27 Aprile 2024

Daniele Tempera

Giornalista

La vera emergenza che la politica fa finta di non vedere

"Nel Regno Unito ho una famiglia e tre figli, in Italia non sarebbe stato possibile". A raccontarlo è Lucia, un'infermiera italiana 37enne che, da anni, vive oltre Manica. Nell'Italia dell'inverno demografico e dei salari fermi da 30 anni, ha avuto anni fa il coraggio di cambiare strada e scegliere un paese che potesse darle un futuro. E a perderci siamo tutti. 

Secondo stime, ormai ferme al 2014, formare un infermiere ci costa almeno 22.500 euro, un medico specialista invece necessita di un investimento di almeno 150.000. Eppure in migliaia continuano ogni anno a lasciare la sanità pubblica e lo Stivale, diretti verso nazioni capaci di valorizzarli.

"L'Italia è seconda solo alla Romania per emigrazione di dottori e infermieri nelle altre nazioni europee oggi" mi faceva notare un medico italiano residente all'estero che ho intervistato recentemente. Una dinamica che non è limitata solo alle professioni sanitarie. 

In dieci anni abbiamo perso 79mila laureati e oltre 2 miliardi di euro 

La premessa è che i laureati in Italia sono pochi. Fra i 30 e i 34 anni appena il 26,8% degli italiani ha un titolo di studio universitario, la media Ocse è del 40%. 

Per formare un laureato lo Stato spende in media circa 5400 euro l'anno. Nel caso di una laurea magistrale arriviamo a una cifra di 27 mila euro in media per l'intero percorso accademico. Quindi i circa 79 mila laureati italiani che risiedono stabilmente all'estero ci sono costati collettivamente più di 2 miliardi di euro. Sono ovviamente calcoli approssimativi, non sappiamo quanti di loro frequentavano università private (che vengono comunque finanziate anche con soldi pubblici), né quanto dura effettivamente per ciascuno il corso di laurea. Ma servono a dare un'idea di quanto ci costa, come comunità, la cosiddetta "fuga dei cervelli" all'estero. 

E se i motivi per trasferirsi possono essere molti, uno balza immediatamente all'occhio. Lo rivela anche Almalaurea, nell'ultimo rapporto disponibile relativo al 2022. 

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I laureati che sono rimasti in Italia, a cinque anni dal conseguimento del titolo, percepiscono, in media, stipendi mensili di 600 euro in meno rispetto ai colleghi stranieri. La differenza sale a quasi mille euro nel caso della laurea di primo livello. Sono differenze significative che incidono, ad esempio, sulla scelta di acquistare o meno una casa, mettere al mondo un figlio o, più banalmente, consumare maggiormente, stimolando in questo modo l'intera economia.

In Italia i giovani (o i "diversamente tali") sono relegati, anche per condizioni economiche, in una sorta di "adolescenza perenne" che vede la famiglia di origine come fonte principale di Welfare. Sì, perché siamo anche il paese Ue dove è più diffuso il cosiddetto "part time involontario" (leggi non voluto e non scelto) e dove c'è il record di tempo determinato per lavoratori al di sotto dei 30 anni.

"Avevo 27 anni e mi sono trovato a chiedere a mia madre i soldi per uscire la sera. Lì mi sono detto: non è possibile, qui c’è qualcosa che non va" ci racconta Mattia, da dieci anni in Germania. Oggi è un insegnante e guadagna oltre il doppio dei suoi colleghi italiani.

In Italia la scuola va avanti invece solo grazie alla buona volontà di 200mila precari sulla pelle dei quali lo Stato risparmia ogni anno moltissimi soldi. E sui quali permette di lucrare facendo pagare esosi percorsi abilitanti. Viene spontaneo allora domandarsi che tipo di Paese stiamo scegliendo di essere. 

Che tipo di lavoro è aumentato in questi anni? 

Dando uno sguardo ai dati Istat scopriamo che il numero di occupati è aumentato di più di un milione negli ultimi dieci anni. E che gli ultimi due hanno fatto registrare un aumento significativo dell'occupazione, come i dati sotto testimoniano (anche se a gennaio si registrano i primi segni di inversione di tendenza). Tutto bene? In parte. 

I dati infatti acquistano significato solo quando vengono messi in relazione con altri. Proviamo anche noi a fare quest'esercizio. Da più di 30 anni i salari dei lavoratori italiani, caso unico nel mondo, sono praticamente fermi. Parametrati sul reale potere di acquisto, gli italiani guadagnano quasi 10mila dollari in meno l'anno rispetto agli altri lavoratori dell'area Ocse.

Secondo gli ultimi dati Inps, relativi al 2022 invece, più di 3 milioni e mezzo di occupati guadagna meno di quindicimila euro lordi all'anno. Parliamo del 30% dei lavoratori dipendenti italiani. 

Nel frattempo la produttività della nostra economia è cresciuta pochissimo (anch'essa) dagli anni '90. Nel 2021 il nostro sistema produttivo faceva registrare uno scarto del 25,5% rispetto agli altri paesi del G7.

Mettendo insieme i puntini, possiamo tirare qualche somma. Viviamo in un Paese fermo a 30 anni fa, che da tempo ha smesso di crescere e investire sul suo futuro. Da ex potenza industriale ci stiamo, nemmeno troppo lentamente, trasformando in un serbatoio di manodopera a basso costo dove i profitti vengono realizzati grazie all'abbassamento sistematico del costo del lavoro e della sua qualità. Nel caso della pubblica amministrazione, inoltre, lo Stato si regge solo su una precarizzazione sistematica dei lavoratori che si abbatte prevalentemente sui più giovani. 

I lavori disponibili sul mercato sono invece prevalentemente poco qualificati, producono scarso valore aggiunto e vengono retribuiti con salari spesso da fame. L'inverno demografico che molti additano come problema, in questo contesto, è solo uno dei tanti sintomi di una malattia che vede i "più giovani" tirare avanti solo con i risparmi accumulati da chi li ha preceduti. 

Ma sono verità a cui nessun politico accenna quando sbandiera pubblicamente i dati sull'occupazione e sulla crescita dell'economia italiana.

Un consiglio, non richiesto per tutti, ma soprattutto per i "patrioti di governo". Prendete di tanto in tanto qualche mezzo pubblico in più, scambiate due chiacchiere in un supermercato o in un bar lontano da Montecitorio. Non fosse altro per tornare a familiarizzare con quella brutta cosa chiamata "realtà". 

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